Bagnoli Marco

Bagnoli Marco

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E’ uno dei più significativi esponenti delle tendenze artistiche che si sono imposte in Italia alla fine degli anni Settanta. Dopo una formazione in ambito scientifico, l’artista sviluppa una ricerca che intenzionalmente si riallaccia al Rinascimento italiano, a una tradizione culturale nell’ambito della quale la filosofia e la scienza sono parte integrante del lavoro. Partecipa alla Biennale di Venezia (1982, 1986, 1997) e alla Documenta di Kassel (1982, 1992), sperimentando complesse installazioni che coinvolgono l’ambiente con il concorso di molteplici mezzi espressivi, dal disegno alla pittura, dalla stampa alla scultura. Nel corso degli anni, alimentandosi con continui studi e viaggi, ha attinto alla cultura islamica, alla poesia mistica del persiano Rumi, al Sufismo, alle dottrine dell’Induismo e del Tao, impiegandoli quali strumenti per le proprie opere. 

Nel 1995 espone con una sua personale al museo Luigi Pecci di Prato.
Da ricordare l’altare realizzato tra il ’94 e il ’95 nella chiesa di S. Miniato al Monte a Firenze per volere dei Padri Benedettini.

Nel ’96 ha realizzato una installazione per la mostra “Accumulazioni 2” ideata da Rudi Fuchs nella sede di Zerynthia a Paliano. 

Nel 2017 apre a Montelupo Fiorentino l’Atelier Marco Bagnoli, uno spazio multifunzionale, che l’artista concepisce nel suo insieme come un’opera d’arte totale.

 

 

 

 

SITO WEB 


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Bagnoli Marco

Senza titolo

Fotolitografia

50 x 70 cm

1970

“In questo luogo, apriamo il triangolo A.R.S., i cui vertici suonano Arte/Religione/Scienza. Il triangolo è ora preso dalla linea di suono (M) tracciata dalla scomparsa dell’oggetto. Rispetto a questa linea i vertici assumono una diversa posizione: L’immagine dell’Arte ne emerge in forma autonoma (A1). Lo Spirituale (R)- inizio di quella traccia-, trova un’eco di risonanza con la linea d’orizzonte del Testimone (A). A: ( se da un lato offre di sé la parte invisibile allo specchio, dall’altro guarda in un occhio che non può vedere). E’ la Scienza (S) il naturale terzo estremo da cui si slanciano i vertici A e R del cono visivo. Punto cieco nel fuoco di quella stessa traccia. Si tratta ora di definire o ridefinire la posizione dei singoli punti alla luce nel loro movimento interno e dunque porre una diversa relazione”1. Il rapporto tra Arte, Scienza e Spirituale è fondamentale nella speculazione di Marco Bagnoli. Dopo gli studi in Chimica all’Università di Pisa, lascia il laboratorio per presentare a Pescara (Il Buon Luogo…, Pescara-Roma 1976- 78) e a Torino (Teatro Gobetti, 1977) le prime opere sul tema. E’ l’inizio di un lungo cammino in questa direzione. Alla fine degli anni Settanta Bagnoli è tra i fondatori della rivista Spazio x Tempo, il cui nome battezza da allora gran parte delle sue pubblicazioni e dei suoi lavori artistici. L’artista inserisce una X nella continuità spazio-temporale della teoria della relatività einsteiniana; ottiene una formula che si fa portatrice di senso profondo in Arte. Infatti lo Spazio e il Tempo sono i due fattori in cui si inscrive da sempre l’attività artistica. Inoltre le due parole contengono in sé IO x TE (Spaz(IO) x (TE)mpo), estremi del rapporto tra l’artista demiurgo e il mondo, tra uno e doppio. La X centrale è infine visualizzazione del Cono degli Eventi, schema dello scorrere fenomenologico, sorta di clessidra in cui il punto d’intersezione coincide col presente dei fatti. Il punto diventa elemento costitutivo di un’opera come Spaz(IO) x (TE)mpo, realizzata al Castello di Santa Maria Novella (Certaldo), in occasione di Dopopaesaggio 1997. L’installazione è lo schema di una piantagione a quinconcia da seminare nei terreni del Castello. La riflessione sul Quincunx2 è un altro dei momenti chiave del percorso di Marco Bagnoli. Nel 2000, l’artista ha pubblicato un libro interamente dedicato a questo concetto, in cui studia le definizioni e le infinite applicazioni della quinconcia nella storia. “Nell’antica Roma, frazione di 5/12 dell’unità”3, il quincunx si traduce in uno schema di X ripetute, definite solo dai punti estremi, in cui ogni punto esterno è anche centro di una X adiacente. L’opera Spaz(IO) x (TE)mpo è posta verticalmente su una parete interna alle mura di fortificazione del Castello di Santa Maria Novella, sopra una fonte antica. E’ una mappa colorata che ribalta la visione ed impone un’astrazione mentale. Guardare le cose dall’alto significa capirne le relazioni, i rapporti geometrici, le distanze. Implica adottare un metodo scientifico; per misurare e proiettare. Il volo impone questo cambiamento di prospettiva. Così il 4 settembre 1984, in Olanda, Marco Bagnoli ha fatto salpare una mongolfiera. Un pallone di stoffa che col proprio meccanismo investe terra, fuoco e aria. Tre dei quattro elementi, la cui interpretazione metaforica rimanda alle “coordinate di una visione interna all’anima”4. La stessa mongolfiera è riapparsa poi nei corridoi labirintici della Fortezza da Basso, a Firenze e ancora nella sala ottagonale della stessa architettura. Ha acquisito la forma di scheletro ligneo del pallone aerostatico. L’artista ha ripercorso il momento di passaggio dall’alchimia alla chimica, quando alla fine del Settecento i fratelli Mongolfier misero in moto il primo volo. Le conquiste scientifiche influenzano in modo determinante la riflessione di Bagnoli. Anche se l’arte sa vedere oltre. “L’opera è sempre un miracolo, perché essa avviene nel mondo e per il mondo. (…) Avviene nel vuoto e in questo avvenire compie, per eccesso, l’offerta di sé”5. L’artista non crea, si limita a comprendere ciò che già è. Ma lo fa in modo diverso dalla scienziato. Se l’arte è una manifestazione dell’essere, la scienza “rispetto a ciò non sa come stanno le cose. Agisce in generale. Il suo sguardo riflette la natura, un soggetto verso un oggetto”6. Con le sue partecipazioni a Documenta di Kassel (1982) e alle Biennali di Venezia (1986 e 1997); con le numerose personali che istituzioni italiane ed estere gli hanno dedicato, Marco Bagnoli trova una sua precisa collocazione nel firmamento dell’arte contemporanea. “Bagnoli realizza interventi complessi, carichi di conflittualità, di rimandi ermetici e rituali, di evocazioni magiche, creando un rapporto acuto di tensione più energetica che emotiva attraverso segni e colori, riuscendo, peraltro, a raggiungere anche una sottile, sottesa carica poetica”.

Antenucci Antonietta

Antenucci Antonietta

ritratto

Nata a Vasto il 15 dicembre 1970. Nel 1997 ha conseguito il diploma in Architettura presso il Liceo Artistico di Termoli. Si è laureata presso L’Accademia di Belle Arti di L’Aquila. Nel 1989 ha frequentato due corsi di Taglio per abiti professionali a Vasto. Nel novembre del 1992 ha organizzato una sfilata di moda in veste di stilista e Vasto nei locali del Wes’daimone club. Nel 1999 ha partecipato come costumista allo spettacolo “Il mondo magico di Escher” organizzato da Lea Contestabile presso l’Accademia di Belle Arti di L’Aquila.

Nello stesso anno ha partecipato a due estemporanee di pittura, “Il paesaggio locale” tenutasi a Treglio (CH) e “Iacovitti e il borgo vecchio” svoltasi a Termoli, dove ha ottenuto il primo premio.

A novembre del 2000 ha partecipato alla mostra “Streghe in Salsa Rosa” svoltasi nella galleria BAUTAarte di Montorio al Vomano (TE). Nell’Agosto del 2001 ha partecipato alla mostra “L’eredità della strega” presso il Museo Civico, Convento della Maddalena a Castel di Sangro.

Come scrive l’artista, l’opera Orma di donna “è nata da un tema che mi sono data, cioè, il tema delle impronte. È stato pensando a questo tema che piano piano mi è cresciuta dentro l’idea di realizzare “Orma di donna” ed è stata quasi un’idea fulminante che mi è scattata fuori all’improvviso e ha preso corpo man mano. Il perché di questo lavoro è probabilmente racchiuso nello stato d’animo di alcuni momenti passati”.


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Orma di donna

Sequenza di 23 foto

3 x 21 cm

2001

 

“Quest’opera è nata da un tema che mi sono data, cioè, il tema delle impronte. È stato pensando a questo tema che piano piano mi è cresciuta dentro l’idea di realizzare “Orma di donna” ed è stata quasi un’idea fulminante che mi è scattata fuori all’improvviso e ha preso corpo man mano. Il perché di questo lavoro è probabilmente racchiuso nello stato d’animo di alcuni momenti passati”.

 

Antonietta Antenucci

Angeli Franco

Angeli Franco

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Franco Angeli nasce a Roma nel 1935 da famiglia di umili origini e solida tradizione socialista e antifascista. Il nome di battesimo è Giuseppe, in arte Franco. Terzo di tre fratelli, non porta a termine gli studi elementari a causa della guerra.Nel 1941 causa la morte del padre, Angeli è costretto a provvedere alla madre malata, inventando i lavori più disparati: porta carretti al mercato, diviene ragazzo-spazzola presso un barbiere, lavora in una lavanderia, infine in un’ autotappezzeria. Dì lì, secondo Gino De Dominicis, nasce l’uso delle velatine. Le calze, presenti nei primi quadri, sono spesso regalate da amiche. Ottimo tappezziere, generalmente prepara da sé le tele dei quadri. Non frequenta scuole di pittura e nel 1949 Muore la madre, evento che lo segna profondamente. Il fratello Otello, futuro segretario del Partito Comunista di Cinecittà, lo educa secondo precisi orientamenti politici. Nel 1957 nascono i primi lavori: l’esigenza di dipingere esplode come affermazione di libertà. Il bombardamento di San Lorenzo, a cui assiste quale testimone lo turba profondamente, improntando la futura pittura dove, con l’uso di materiali come garze e cromatismi rosso cupo denunciano un forte debito verso Burri. Nel 1950 Franco Angeli ha la prima collettiva, alla Galleria La Salita, di Roma, con Festa e Uncini. Nel 1960 è la sua prima personale, alla Galleria La Salita. Il fratello Otello organizza il Premio di Pittura Cinecittà, dove un monocromo dell’artista, su tela di iuta, viene rifiutato della commissione composta, tra gli altri, da Guttuso, Trombadori e Del Guercio. Opere quali Accattoni, di quell’anno, denotano tangenze con la poetica dell’informale.  Nel 1961/62 partecipa con Lo Savio, Festa e Schifano alla mostra Nuove prospettive della pittura italiana, a Palazzo Re Enzo di Bologna. Diviene amico di Schifano, conosciuto nella sezione del partito: li accomuna l’estrazione popolare, il senso radicato della realtà, l’esigenza di andare oltre le esperienze informali. Si tratta di una generazione di artisti unita da uno stretto legame esistenziale segnato dalla guerra: vengono definiti maestri del dolore, una qualifica che li distanzia dall’Arte Pop, alla cui estraneità fa riferimento una lettera autografa dello stesso Angeli. Negli anni successivi diviene poi amico di Renato Guttuso e poi di Arnaldo Pomodoro e del poeta Francesco Serrao.  Nel 1963 alla Galleria J di Parigi, le sue opere sono di fianco a quelle di Bruce Conner, Michael Todd, Christo e Kudo: catalogo a cura di Pierre Restany. Alla Galleria La Tartaruga, in Piazza del Popolo, partecipa ad una storica collettiva: 13 pittori a Roma. L’opera di Angeli è glossata da un testo poetico di Nanni Balestrini. Nel 1964, alla Galleria L’Arco di Alibert, di Roma, presenta Frammenti capitolini: si tratta di lupe, aquile, frammenti di simbologia collettiva. Partecipa alla Biennale di Venezia, presentato da Calvesi: è la storica Biennale della Pop Art in Italia. L’artista presenta La lupa e Quarter Dollar. Nel 1965 è invitato alla nona Quadriennale romana: di questo periodo sono i Cimiteri partigiani, corredati di stelle e falci e martello. Nel 1967 è presente alla Biennale di San Paolo del Brasile con Half dollar: il famoso mezzo dollaro, zoomato nei particolari. Negli anni 1968/70 vi è un grande impegno politico e ideologico, che lo vedono impegnato sul tema della guerra del Vietnam. Conosce Marina Ripa Di Meana, in occasione del Festival di Spoleto. Con la donna intreccia una tumultuosa relazione poi sfociata in fedele amicizia. E’ lei in più occasioni a rimarcare dell’artista il lato profondamente umano, la creatività svincolata da ogni logica di mercato, la vita bohemien costellata di debiti, il desiderio di morire giovane, non toccato dal cinismo che le delusioni e i disinganni inducono nel tempo. Nel 1972 Franco Angeli presenta alcuni interessanti lavori alla Galleria Sirio per la rassegna Film. Comincia ad apparire nella sua produzione il volto di Marina Ripa di Meana, in concomitanza con i temi dell’aereo, degli obelischi, dei piccoli paesaggi. Espone alla X Quadriennale di Roma. Nel 1975 Conosce Livia Lancellotti, che diviene sua compagna e gli darà, nel ’76 una figlia, Maria. Diviene amico di Jack Kerouac, raccolto sanguinante da un bar da cui viene espulso ubriaco. Ospitato nello studio di via Germanico, si cimenta con l’artista nella composizione di un’opera La deposizione di Cristo, poi acquistata da Gian Maria Volonté.  Nel 1978 partecipa alla Biennale di Venezia, curata da Bonito Oliva nella sezione L’iconosfera urbana. Vi presenta anche un cortometraggio. Nel 1981 Angeli viene invitato con alcuni disegni, accanto a Dorazio, De Chirico, Fontana, Guttuso, Maccari, Modigliani, Morlotti, Pozzati, e altri, ad una collettiva presso la Galleria La Scaletta di Reggio Emilia. Nel 1982 partecipa alla collettiva 30 anni d’arte italiana 1950-80, organizzata a Villa Manzoni, Lecco. Compone opere improntate all’influenza di Kees Van Dongen (Pensando a Van Dongen).
Con il 1984 comincia l’epoca delle Marionette, sorta di autoritratto ironico dell’artista, poi esposte al Belvedere di San Lucio. Nel 1986 partecipa alla XI Quadriennale romana. Nel 1988 gli viene dedicata una retrospettiva alla Casa del Machiavelli (1958-72) nei pressi di Firenze. Presentato da Marisa Vescovo, espone alla Galleria Rinaldo Rotta di Genova. Viene invitato al Circolo Culturale Giovanni XXIII per la Biennale di Arte Sacra: con lui, Enzo Cucchi, Sandro Chia, Mimmo Paladino e Mario Schifano. Nello stesso anno, Franco Angeli muore di Aids all’età di 53 anni. Il funerale si celebra nella Chiesa di Santa Maria del Popolo, scelta dalla compagna Livia per l’amore sconfinato dell’artista nei confronti di Caravaggio (uno degli altari è infatti sovrastato da La conversione di Paolo)..


Metafisici

Cassetta con 20 litografie

160 x 115

1980

 

L’opera, realizzata nel dicembre 1980, è composta da n. 20 litografie originali numerate e firmate a mano dall’artista da 1/50 a 50/50 e n.10 prove d’artista. Calcografia Studio San Giovanni Valdarno.

 

Angeli appartiene alla generazione della non violenza, la sua ideologia è la non violenza e i suoi dipinti la riflettono. Ne sono qui raccolti alcuni notevoli, in un panorama che ricapitola praticamente gli anni sessanta, di cui Angeli è stato protagonista escludendo le più recenti esperienze, che sono diverse ed aprono un nuovo momento. E’ una pittura, o almeno lo è stata, che nega: nega la violenza e nega la rappresentazione, privilegia il simbolo e ne esaspera il mutismo. Una tavolozza accesa e senza velature, come sapevamo Van Gogh, i futuristi, gli espressionisti, è adatta ad esprimere violenza; spenta e velata esprimerà l’opposta. Il velo respinge l’immagine fino ai limiti dell’assenza e su quella soglia la trattiene, snervata dell’astio, del rancore, dell’ironia che pure la caricava. E’ l’operazione antiviolenza che si sovrappone a simboli, non di rado, di violenza, rapacità, possesso. In uno dei suoi dipinti che più conquistano, a rivederli il simbolo è dipinto sopra la garza, ha la sua forza di venir fuori e di rapprendersi; é una croce, quasi un Malevic passato attraverso l’informale, un simbolo riscoperto in una stratificazione di valori che partendo di lontano ci imprigionano nel loro brusio. La croce del Vangelo, la croce dei cimiteri, la croce dell’esistenza, la croce a un bel momento intravista, Così come, a un certo punto, A. intravede, e quasi ingentilisce la rossa falce e martello. Valori che si scoprono, valori che si sovrappongono, valori che si negano: la messa a fuoco di una coscienza si riconosce nel vocabolario smozzicato dei simboli. Ma i simboli hanno presa perché sono schemi da riempire, cifre che non possono essere decifrate senza chiave, che si porta dentro, ed è l’esperienza morale cui si riferisce il simbolo. Sempre cercando questa chiave. A. l’ha sempre indicata. Il magnetismo velato, sfuocato dei suoi simboli allude a qualcosa di faticoso da decifrare, ma ne asseconda anche la lettura secondo un assunto costante, che in positivo o in negativo comunque risulta ed è l’assunto della non violenza. Questo sembra infatti il discorso stesso della sua pittura, dove lo stratificato, l’assorto, il soffuso non parlano in termini di lirismo, né di giuoco ottico, ma di interiorità morale.

Maurizio Calvesi, catalogo “Arco d’Alibert”, Roma 1970

Alviani Getulio

Alviani Getulio

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Nasce a Udine nel 1939. Si interessa ai fenomeni ottico-percettivi, collaborando, nel corso degli anni ’50, con architetti e ingeneri e occupandosi di progettazione industriale. La ricerca dell’artista è dunque precocemente orientata nella direzione che, dalle proposizioni dell’astrazione geometrica e del neoconcretismo, porta, nel corso degli anni ’60, alla definizione delle avanguardie optical, cinetiche, programmate, attente alle risultanze psicologiche e all’incidenza sociale dell’opera. Si interessa del rapporto tra opera e ambiente, progetta “environnements”, “oggetti luminosi”, “oggetti d’acqua e di fuoco”. Dai primi anni ’70 ad oggi l’attenzione di Alviani torna ad appuntarsi sul colore.


Senza titolo

serigrafia

100 x100

1970

Senza titolo

serigrafia

50 x 70cm

1970

Luca Alinari_Senza titolo_serigrafia 58:100_23x23_1980

Alinari Luca

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Nato il 27 ottobre 1943 a Firenze, vive in questa città. Vincitore di una borsa di studio per giovani artisti proposta dal Comune di Firenze nel 1969, è stato segnalato dalla critica del catalogo Bolaffi nel 1972 per la grafica da U. Baldini e per la pittura nel 1974 da G. Briganti. Pittore e grafico presenta qui multipli in plexsiglas fra i quali la valigia e il ferro da stiro. Ne ha scritto Miklos N. Varga “… una valigia tipo “ 24 ore “ ( poco universo 1974 ) più che un oggetto da viaggio è un “ soggetto in viaggio “, come un ferro da stiro ( falso monaco, 1975 ) implica, nella sua trasparente oggettuale plasticità, un dadaistico gioco di associazioni – dissociazioni desunte dalla sua falsa apparenza, ricordando appunto il proverbiale monito: “ non è l’abito che fa il monaco “. Come, d’altro canto, non è la parola che fa la cosa o viceversa”.

 


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Senza titolo

serigrafia 58/100

23 X 23 cm

1980

La qualità essenziale della ricerca di Luca Alinari rientra nella categoria del pensiero poetante, quell’elaborazione della mente che, nell’attimo in cui viene espressa, si fa poesia pura; qui ritmi, cadenze, componenti retorici e musicali si attagliano ad immagini che incidono la pagina dipinta non solo con il valore della loro identità formale, ma con un cumulo di significati contenuti nel tratto allusivo, nella dinamica combinatoria degli elementi interni al quadro, nella sostanza della volontà di azione traslata che rimanda sempre a un “altrove”, ai bordi o fuori dal perimetro letterale della figurazione.
E’ per questo che l’opera si offre allo sguardo con un’ampia possibilità di essere “sfogliata” fino alla regione più segreta e meno visibile, facendo percorrere all’osservatore quella distanza governata appunto dalla forza lirica dell’intervento. Quando un artista si sintonizza su frequenze comunicative vibranti e appassionate, il processo che le ha prodotte parte solitamente dall’osservazione della realtà, quella più spicciola e quotidiana che fa evaporare i suoi contorni nella consuetudine, capace di erodere la nitidezza della visione. Questa viene restituita integra dal miracolo della pittura, che in Luca Alinari si attua in modalità diverse; egli trasfonde nell’atto creativo quel repertorio di elementi che registra nell’osservazione puntuale della natura, nelle evoluzioni delle stagioni, nei colori del cielo sottoposto ai capricci del clima, nel trascolorare delle foglie, nel movimento delle persone, nel loro colloquio, fatto anche di silenzi e intermittenze emotive.
La sua arte sgorga da una personalità pienamente in linea con le espressioni di una pittura che, di per sé, risulta metafora di un viaggio attraverso gli spazi “elastici” di una fantasia, in cui si sono impresse le tracce di un’aderenza profonda al mondo iperuranio, incantato perché sospeso sul crinale di un’ eterna fanciullezza: una sorta di età dell’oro, evocata per sviluppi iconici di intonazione fabulistica e un impianto cromatico di inattese corrispondenze con il sogno. Le scaturigini culturali della ricerca si situano nei riflessi di una sensibilità particolare per il rinascimento fiorentino da una parte, per taluni approdi della pop-art dall’altra, ma anche in tanti suggerimenti delle avanguardie, la metafisica e il surrealismo innanzitutto.
Non è escluso che la capacità di stupirsi di fronte a uno spettacolo naturale oppure al cospetto di persone si traduca poi in un’avventura espressiva, che isola una sequenza del racconto dentro la geometria della tela. Certi volti, allungati nella dimensione di ascendenza botticelliana (1) contrastano talora con effetti delicatamente caricaturali, mentre l’enigma di determinate atmosfere, avvolte nel sortilegio della lontananza remota, è consegnato alla fissità di sguardi perduti nella frontalità della composizione; in lande esotiche si affastellano dati morfologici complessi, inseriti in un labirinto di linee, anche virtuali per gran parte del loro tragitto, che imbrigliano brani iconici, quasi ritagli di figure innestate nel contesto dell’opera.
La dichiarata simpatia per il fascino del “rosa laccato”(2), tipico di Giovanni Battista di Jacopo De Rossi (3), ha il potere di dilatare le proprie interne risultanze ad altri colori come il verde e il celeste. Le tonalità declinano verso esiti di leggerezza, anche quando la superficie è in forte rilievo e si afferma per il corpo dell’impasto, dato da una matericità variegata. Una tenuità affabulante caratterizza anche le figure, i dati vegetali, le architetture liberate dalle esigenze della gravità e dislocate nello spazio secondo una strategia onirica che guida il percorso nei territori del sogno con una luminosità diffusa e uniforme. Le presenze si muovono spesso in spazi svincolati da norme prospettiche, quasi con passi di una danza alla quale sono chiamati anche oggetti di contorno, elementi esornativi, dettagli figurali posti in punti strategici della superficie, qualche volta dentro finestre circolari come oblò aperti su territori della memoria, oppure rettangolari, in cui l’artista va a recuperare scorci naturali, cose, edifici e situazioni visti nella fanciullezza. Gli alberi si ergono in una verticalità decorata dal verde di chiome ridotte, mentre i volti richiamano espressioni della pittura giottesca: anatomie contornate da un segno che le squadra, vesti multicolori, spessori di superficie come intonaci sbrecciati su affreschi preesistenti.
La realtà di Luca Alinari è spogliata da ogni riflesso fisico, perché appartiene per intero alla memoria; qui l’artista attinge all’album delle private giacenze affettive e sentimentali traducendole poi in calde accensioni luminose, festa di tonalità leggere quasi screziate a volte da appena percettibili ombreggiature, fantasmagoria di ritmi affidati a una ritualità primitiva, tinte delicate ma non tanto da smorzare la forza della propria essenza in una pennellata che avvolge e penetra all’interno di una condizione estatica; così l’artista invita il fruitore ad assaporare l’atmosfera da sogno ad occhi aperti. Come nella serie “L’anima ama la mano”, dove l’assunto del titolo indica il nesso stretto tra ciò che l’artista “sente” e ciò che “fa”, in una simmetria perfetta tra le elaborazioni della mente e le realizzazioni concrete. Nello schermo della tela si segnala un bilanciamento perfetto tra le aree dominate dalle scritture geometriche dello spazio e quelle assegnate alle presenze che producono una tensione estetica, attivata su frequenze di grande originalità ed efficacia formale: esse appaiono semplici fregi, elementi di contorno, se estrapolati dal contesto, ma, letti nella complessità del quadro, sono necessari all’equilibrio generale dell’opera. L’ambiguità formale delle superfici risiede nel valore di credibilità di un mondo che, per gran parte, dichiara la sua appartenenza all’immaginario eppure in forma così vera da uscire per un momento dall’aria di favola da cui è avvolto e, attraverso la magia di una sintesi affascinante tra forma e colore, si prospetta come evidenza del possibile.
La poesia è l’ingrediente di più intensa efficacia della figurazione di Luca Alinari, proprio perché colma la distanza tra dato fisico e fantastico, con il “peso” di un’armonia di forme che vivono anche in sintonia tra loro, corpi spigolosi di derivazione geometrica e sagome ondulate o tondeggianti. Mentre la scena è occupata da esseri catapultati nel presente dai cassetti della memoria, agghindati con abiti minimali in cui la plasticità dei corpi è risolta col gioco chiaroscurale, declinato in velature e trasparenze dei tessuti, oppure caricati di ricorrenti motivi ideogrammatici (soprattutto vegetali). La vena compositiva, libera di modificare l’anatomia delle presenze, facendo ruotare le articolazioni come in manichini di un ipotetico teatro di burattini, fa in modo che anche lo spazio circostante subisca la forza deformante di un evento che sconvolge i tratti, allunga i corpi, appiattisce nella bidimensionalità gli effetti plastici dei volumi, dando l’idea di un piano dipinto dove storia effettiva e arbitrio del sogno si sono fusi in un’immagine che conserva la fragranza di entrambe le derivazioni.

Enzo Santese