Alviani Getulio

Alviani Getulio

foto-alviani

Nasce a Udine nel 1939. Si interessa ai fenomeni ottico-percettivi, collaborando, nel corso degli anni ’50, con architetti e ingeneri e occupandosi di progettazione industriale. La ricerca dell’artista è dunque precocemente orientata nella direzione che, dalle proposizioni dell’astrazione geometrica e del neoconcretismo, porta, nel corso degli anni ’60, alla definizione delle avanguardie optical, cinetiche, programmate, attente alle risultanze psicologiche e all’incidenza sociale dell’opera. Si interessa del rapporto tra opera e ambiente, progetta “environnements”, “oggetti luminosi”, “oggetti d’acqua e di fuoco”. Dai primi anni ’70 ad oggi l’attenzione di Alviani torna ad appuntarsi sul colore.


Senza titolo

serigrafia

100 x100

1970

Senza titolo

serigrafia

50 x 70cm

1970

Luca Alinari_Senza titolo_serigrafia 58:100_23x23_1980

Alinari Luca

alinariluca02

Nato il 27 ottobre 1943 a Firenze, vive in questa città. Vincitore di una borsa di studio per giovani artisti proposta dal Comune di Firenze nel 1969, è stato segnalato dalla critica del catalogo Bolaffi nel 1972 per la grafica da U. Baldini e per la pittura nel 1974 da G. Briganti. Pittore e grafico presenta qui multipli in plexsiglas fra i quali la valigia e il ferro da stiro. Ne ha scritto Miklos N. Varga “… una valigia tipo “ 24 ore “ ( poco universo 1974 ) più che un oggetto da viaggio è un “ soggetto in viaggio “, come un ferro da stiro ( falso monaco, 1975 ) implica, nella sua trasparente oggettuale plasticità, un dadaistico gioco di associazioni – dissociazioni desunte dalla sua falsa apparenza, ricordando appunto il proverbiale monito: “ non è l’abito che fa il monaco “. Come, d’altro canto, non è la parola che fa la cosa o viceversa”.

 


Luca Alinari_Senza titolo_serigrafia 58100_23x23_1980

Senza titolo

serigrafia 58/100

23 X 23 cm

1980

La qualità essenziale della ricerca di Luca Alinari rientra nella categoria del pensiero poetante, quell’elaborazione della mente che, nell’attimo in cui viene espressa, si fa poesia pura; qui ritmi, cadenze, componenti retorici e musicali si attagliano ad immagini che incidono la pagina dipinta non solo con il valore della loro identità formale, ma con un cumulo di significati contenuti nel tratto allusivo, nella dinamica combinatoria degli elementi interni al quadro, nella sostanza della volontà di azione traslata che rimanda sempre a un “altrove”, ai bordi o fuori dal perimetro letterale della figurazione.
E’ per questo che l’opera si offre allo sguardo con un’ampia possibilità di essere “sfogliata” fino alla regione più segreta e meno visibile, facendo percorrere all’osservatore quella distanza governata appunto dalla forza lirica dell’intervento. Quando un artista si sintonizza su frequenze comunicative vibranti e appassionate, il processo che le ha prodotte parte solitamente dall’osservazione della realtà, quella più spicciola e quotidiana che fa evaporare i suoi contorni nella consuetudine, capace di erodere la nitidezza della visione. Questa viene restituita integra dal miracolo della pittura, che in Luca Alinari si attua in modalità diverse; egli trasfonde nell’atto creativo quel repertorio di elementi che registra nell’osservazione puntuale della natura, nelle evoluzioni delle stagioni, nei colori del cielo sottoposto ai capricci del clima, nel trascolorare delle foglie, nel movimento delle persone, nel loro colloquio, fatto anche di silenzi e intermittenze emotive.
La sua arte sgorga da una personalità pienamente in linea con le espressioni di una pittura che, di per sé, risulta metafora di un viaggio attraverso gli spazi “elastici” di una fantasia, in cui si sono impresse le tracce di un’aderenza profonda al mondo iperuranio, incantato perché sospeso sul crinale di un’ eterna fanciullezza: una sorta di età dell’oro, evocata per sviluppi iconici di intonazione fabulistica e un impianto cromatico di inattese corrispondenze con il sogno. Le scaturigini culturali della ricerca si situano nei riflessi di una sensibilità particolare per il rinascimento fiorentino da una parte, per taluni approdi della pop-art dall’altra, ma anche in tanti suggerimenti delle avanguardie, la metafisica e il surrealismo innanzitutto.
Non è escluso che la capacità di stupirsi di fronte a uno spettacolo naturale oppure al cospetto di persone si traduca poi in un’avventura espressiva, che isola una sequenza del racconto dentro la geometria della tela. Certi volti, allungati nella dimensione di ascendenza botticelliana (1) contrastano talora con effetti delicatamente caricaturali, mentre l’enigma di determinate atmosfere, avvolte nel sortilegio della lontananza remota, è consegnato alla fissità di sguardi perduti nella frontalità della composizione; in lande esotiche si affastellano dati morfologici complessi, inseriti in un labirinto di linee, anche virtuali per gran parte del loro tragitto, che imbrigliano brani iconici, quasi ritagli di figure innestate nel contesto dell’opera.
La dichiarata simpatia per il fascino del “rosa laccato”(2), tipico di Giovanni Battista di Jacopo De Rossi (3), ha il potere di dilatare le proprie interne risultanze ad altri colori come il verde e il celeste. Le tonalità declinano verso esiti di leggerezza, anche quando la superficie è in forte rilievo e si afferma per il corpo dell’impasto, dato da una matericità variegata. Una tenuità affabulante caratterizza anche le figure, i dati vegetali, le architetture liberate dalle esigenze della gravità e dislocate nello spazio secondo una strategia onirica che guida il percorso nei territori del sogno con una luminosità diffusa e uniforme. Le presenze si muovono spesso in spazi svincolati da norme prospettiche, quasi con passi di una danza alla quale sono chiamati anche oggetti di contorno, elementi esornativi, dettagli figurali posti in punti strategici della superficie, qualche volta dentro finestre circolari come oblò aperti su territori della memoria, oppure rettangolari, in cui l’artista va a recuperare scorci naturali, cose, edifici e situazioni visti nella fanciullezza. Gli alberi si ergono in una verticalità decorata dal verde di chiome ridotte, mentre i volti richiamano espressioni della pittura giottesca: anatomie contornate da un segno che le squadra, vesti multicolori, spessori di superficie come intonaci sbrecciati su affreschi preesistenti.
La realtà di Luca Alinari è spogliata da ogni riflesso fisico, perché appartiene per intero alla memoria; qui l’artista attinge all’album delle private giacenze affettive e sentimentali traducendole poi in calde accensioni luminose, festa di tonalità leggere quasi screziate a volte da appena percettibili ombreggiature, fantasmagoria di ritmi affidati a una ritualità primitiva, tinte delicate ma non tanto da smorzare la forza della propria essenza in una pennellata che avvolge e penetra all’interno di una condizione estatica; così l’artista invita il fruitore ad assaporare l’atmosfera da sogno ad occhi aperti. Come nella serie “L’anima ama la mano”, dove l’assunto del titolo indica il nesso stretto tra ciò che l’artista “sente” e ciò che “fa”, in una simmetria perfetta tra le elaborazioni della mente e le realizzazioni concrete. Nello schermo della tela si segnala un bilanciamento perfetto tra le aree dominate dalle scritture geometriche dello spazio e quelle assegnate alle presenze che producono una tensione estetica, attivata su frequenze di grande originalità ed efficacia formale: esse appaiono semplici fregi, elementi di contorno, se estrapolati dal contesto, ma, letti nella complessità del quadro, sono necessari all’equilibrio generale dell’opera. L’ambiguità formale delle superfici risiede nel valore di credibilità di un mondo che, per gran parte, dichiara la sua appartenenza all’immaginario eppure in forma così vera da uscire per un momento dall’aria di favola da cui è avvolto e, attraverso la magia di una sintesi affascinante tra forma e colore, si prospetta come evidenza del possibile.
La poesia è l’ingrediente di più intensa efficacia della figurazione di Luca Alinari, proprio perché colma la distanza tra dato fisico e fantastico, con il “peso” di un’armonia di forme che vivono anche in sintonia tra loro, corpi spigolosi di derivazione geometrica e sagome ondulate o tondeggianti. Mentre la scena è occupata da esseri catapultati nel presente dai cassetti della memoria, agghindati con abiti minimali in cui la plasticità dei corpi è risolta col gioco chiaroscurale, declinato in velature e trasparenze dei tessuti, oppure caricati di ricorrenti motivi ideogrammatici (soprattutto vegetali). La vena compositiva, libera di modificare l’anatomia delle presenze, facendo ruotare le articolazioni come in manichini di un ipotetico teatro di burattini, fa in modo che anche lo spazio circostante subisca la forza deformante di un evento che sconvolge i tratti, allunga i corpi, appiattisce nella bidimensionalità gli effetti plastici dei volumi, dando l’idea di un piano dipinto dove storia effettiva e arbitrio del sogno si sono fusi in un’immagine che conserva la fragranza di entrambe le derivazioni.

Enzo Santese

sabina alessi

Alessi Sabina

sabina alessi

Nata a Bruges nel 1968.

Nel 1986 termina i suoi studi secondari e consegue il Baccalaureat Européen a Bruxelles. In seguito si trasferisce a Roma dove studia all’Accaemia di Belle Arti conseguendo il diploma di Decorazione . Attualmente vive e lavora a Roma

 

 


sabina alessi

 Senza titolo

 acquerello su carta

 74 x 56 cm

 1995

 

LA GIOVANE AVVENTURA DI UNO SPIRITO ORDINATORE

Vivacità immaginativa, coscienza storica, cortocircuito ironico, sapienza artigianale e rigore teorico, sono i cinque capisaldi dell’attività creativa di Sabina Alessi, giovane vestale di un’arte chiara ed essenziale, positiva e densa di energia poetica. Il suo già notevole percorso operativo si ricollega a quell’imperituro e lucido spirito ordinatore che, sia pur tra innumerevoli varianti, ha unito, tra gli altri, Seurat, Braque (“La regola che corregge l’emozione”), Malevic, Mondrian, Alberts, Van Doesburg, Max Bill (“Il fine dell’arte è di creare un tipo di verità elementare, non variabile”). In questo senso è stato fondamentale l’apprendistato svolto da Sabina a fianco di Antonio Passa, uno dei più rigorosi e fervidi artisti italiani di questi ultimi trent’anni, infaticabile demiurgo capace di creare, con immaginosa pazienza, veri e propri trasmettitori d’energia spirituale. Sabina Alessi ha compreso, fin dagli inizi della sua attività creativa, la necessità di salvaguardare la totalità del “corpo” dell’arte, senza separare teoria e prassi, manualità artigianale e volontà comunicativa. Il quadro è per lei, innanzi tutto, un “oggetto” nato dall’applicazione di una tecnica e di un patrimonio di conoscenze, è un nucleo plastico che unifica su uno stesso livello tela, telaio e colore, tanto da ispirare nell’osservatore il desiderio di toccarlo e soppesarlo per il piacere del contatto fisico e non soltanto visivo o contemplativo. E poiché la pittura è un linguaggio, Sabina Alessi ha saputo appropriarsi delle regole essenziali di una grammatica fondata sulla modulazione di forme elementari (quadrati, rettangoli, triangoli) in relazione dialettica con la variabile cromatica. Così gli spostamenti di “figure” geometriche dal loro asse “consueto” generano mutamenti nella sostanza dei colori, quasi tramite un gioco inizialmente ragionato che conduce poi verso evocazioni di inedite dimensioni. Lo spiazzamento ironico di equilibri apparentemente prestabiliti è dato, ad esempio, dall’invenzione sorprendente di uno spazio che prende avvio da una parte e termina dall’altra, la quale poi viene ad identificarsi con quella di partenza. Moduli numerici e matematici costituiscono, spesso, la base costruttiva delle opere di Sabina Alessi, caratterizzate da un ordine ritmico e dinamico che nasce da un minimo sommovimento compositivo, come un soffio leggero capace di scompaginare un delicato “castello di carte”. E poiché la nostra artista sa che la tecnica stimola la creatività, i suoi acquerelli rivelano un lirismo più inquieto, per certi versi, con quelle vaporosità di materia che sembrano voler quasi obnubilare i nitidi “cieli” dei suoi quadri. Sabina potrebbe ben condividere la celebre definizione data da Max Bill delle opere d’arte come “oggetti estetici concreti ad uso spirituale attraverso la realizzazione di idee astratte”. Ma c’è, nelle sue opere, tutta la freschezza entusiasta di un’avventura creativa appassionata eppur consapevole del fatto che i veri artisti sono oggi simili a naufraghi aggrappati ad una zattera minacciata da torbidi marosi, in un mondo privo di regole e certezze.

Gabriele Simongini

 



SABINA ALESSI

“In che stile nuota il colore blu” 

Mostra di pittura

24 / 30 GIUGNO 1995

 

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Carla Accardi

Accardi Carla

carla-accardi
All’anagrafe Carolina Accardi, Trapani, 9 ottobre 1924 Roma, 23 febbraio 2014.

 

Dopo aver conseguito sia la maturità classica che artistica, nel 1944 frequenta l’Accademia delle Belle Arti di Palermo. L’anno dopo studia all’Accademia di Firenze, dove conosce il pittore Antonio Sanfilippo. Insieme si trasferiscono a Roma nel 1946. Si sposeranno tre anni dopo. Del mondo artistico romano frequentano Ugo Attardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Giulio Turcato, con i quali, spinti da una comune visione dell’arte e della società, si proclamano formalisti e marxisti e nel marzo del 1947, fondano il Gruppo Forma Uno. All’interno di questo gruppo l’Accardi svolge una ricerca sul fronte dell’arte astratta contro uno spento realismo in direzione di una produzione artistica italiana aperta alle soluzioni formali internazionali, rivendicando la valenza anche politica delle sue scelte. Si dimostra quindi sensibile al clima di rinnovamento politico-sociale che si respira in Italia in quegli anni. Partecipa con il gruppo Forma Uno a numerose collettive in Italia e all’estero: Roma, Praga, Torino, e alla XXIV Biennale di Venezia. La sua prima personale si tiene alla Galleria Numero Uno di Firenze, seguita nel 1950 da una mostra presso la Galleria Libreria Age D’Or di Roma. L’anno successivo espone alla Libreria Salto di Milano, punto d’incontro degli artisti del MAC. Dopo un periodo difficile, durante il quale riduce drasticamente la sua produzione, riprende a lavorare a pieno ritmo nel 1954, rinunciando ai colori e limitando la gamma cromatica ai soli bianco e nero (“Duello Interrotto”, 1954). Questa nuova fase la vede volgersi verso una ricerca fondata sulla poetica del segno, documentata per la prima volta in una mostra personale alla Galleria San Marco di Roma nel 1955. << Un segno da solo non vale per sé, ma esso esiste in rapporto ad altri segni dal momento che forma con essi una struttura, e diventa espressione artistica (nella struttura) allorché porta (in una continuità compatta) il suo valore simbolico e individualistico, e perdendo ciò che ha di arbitrario acquista nel tutto un magico e intelligente significato di rigorosa necessità, ma insieme di gioco imprevedibile (ambiguo).>> (Celant 1999). Questa scelta espressiva la mette in relazione con le ricerche dei maggiori artisti della poetica informale. Tra il 1954 e il 1959 il critico Michel Tapié la invita alle mostre da lui curate in Italia e all’estero, che inseriscono l’ opera della Accardi nel contesto internazionale contemporaneo. Negli stessi anni, l’artista partecipa a numerose collettive curate da Michel Seuphor, Palma Bucarelli, Giulio Carlo Argan, Lionello Venturi. A partire dalla seconda metà degli Anni Cinquanta, comincia a reintrodurre gradualmente nelle sue opere i colori (“Labirinto con settori”, 1957- “Rossoviola”, 1963 – “Verdearancio”, 1964 – “Rosaverde”, 1964). Nel 1961 aderisce al gruppo Continuità e tiene una personale alla Parma Gallery di New York e al New Vision Center di Londra. Nel 1964 è presente con una sala personale alla Biennale di Venezia, in questa occasione instaura un importante sodalizio con Carla Lonzi, che la porterà alla militanza femminista. Dopo il 1965, l’interesse per la relazione tra opera e ambiente la porta a superare i limiti della dimensione chiusa del quadro, estendendo la sua pittura allo spazio. Ne sono emblematici i lavori “Tenda” (1965) e “Triplice tenda” (1969-71), delle vere e proprie strutture leggerissime dove lo spettatore può entrare, passare, stare, che vengono esposte alla Biennale di Venezia del 1976. Dalla prima metà degli anni Settanta, lavora alla serie dei “Lenzuoli”, grandi tele dipinte con segni geometrici, presentati in una mostra personale alla Galleria Editalia di Roma nel 1974. Partecipa alla Biennale del 1978 e a retrospettive del Gruppo Forma e dell’Avanguadia degli anni Cinquanta in Italia. Negli anni Ottanta la Accardi recupera la dimensione del quadro (serie “Parentesi e Capricci”) utilizzando prevalentemente la tela grezza. E’ di nuovo presente alla Biennale del 1988 con una sala personale e partecipa alle principali rassegne storiche sull’arte italiana del XX secolo, in Italia e all’estero. Nel 1999 Germano Celant pubblica un’importante monografia sulla sua opera.Partita dal dinamismo degli elementi pittorici astratti, C. A. ha spinto le proprie composizioni verso i margini della tela, quasi a catturare l’esperienza fenomenologica dello spazio che devia e si espande. Le sua forme fluttuano nello spazio con vibrante energia, mentre il colore nelle sue interazioni cromatiche, è esaminato con piglio scientifico, nell’emozionante provocazione visiva di una luminosità intensa, o di minuscoli bagliori. (Segno-dic.1995)


Carla Accardi

Senza titolo

serigrafia 73/100

23x23cm

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ATTORI IN PRIMO PIANO workshop di recitazione

13 - 17 Novembre 2017

Tutti recitano. Tranne qualche attore

“Attori in Primo Piano” è uno Stage Intensivo di Recitazione Cinematografica, ideato e diretto da Luca Antonetti (regista diplomato presso il Centro Sperimentale di Cinematografia) e Massimo Sconci (attore professionista laureato in Cinema, Televisione e Produzione Multimediale).Lo stage ha previsto 24 ore di formazione full immersion in tre giorni di lavoro nel corso dei mesi di novembre e dicembre 2017 e ha avuto come obiettivo quello di seguire gli allievi in un percorso formativo che va dalla presentazione di se stessi davanti allo schermo, fino all’allestimento di piccoli set per la riproduzione di singole scene tratte dai più grandi film della storia del cinema.L’obiettivo comune è stato quello di garantire una preparazione specifica, che permetta all’artista di muoversi sul set con maggiore disinvoltura. Il corso ha avuto lo scopo di aiutare gli allievi a prepararsi in maniera efficace ad un casting, oltre a lavorare su una scena seguendo il metodo della Recitazione Naturale.Durante il corso sono stati affrontati i dubbi e le problematiche più comuni come presentarsi ad un provino, quanto e come prepararsi, come informarsi sul personaggio, se sia giusto o meno essere se stessi, fino a dove spingersi… La priorità formativa è stata quella di guidare gli iscritti ad un ascolto di gruppo, in maniera tale da abbattere le barriere individuali in funzione della scena da preparare. A metà del percorso si sono svolti inoltre esercizi d’immaginazione/coordinazione con la musica, quale strumento funzionale alla costruzione del personaggio. Al termine sono stati forniti agli iscritti i video delle scene realizzate, come materiale utile da spedire per i casting in lavorazione su tutto il territorio nazionale.

(Eugene Ionesco)

locandina