opera di Giuseppe Chiari, fluxus

Chiari Giuseppe

Giuseppe+Chiari_alta+risoluzione

Compositore e artista concettuale, nato a Firenze il 26 settembre 1926. A Firenze, parallelamente agli studi universitari in matematica e in ingegneria (1946-51), si è dedicato alla musica studiando pianoforte e composizione. Attratto in particolare dalle esperienze di J. Cage, C. ha cominciato a interessarsi a ricerche sperimentali di musica visiva promuovendo nel 1961, con P. Grossi, l’associazione Vita musicale contemporanea; importanti per lo sviluppo artistico di C. furono, nei primi anni sessanta, l’incontro con S. Bussotti, il confronto con le ricerche di poesia concreta del Gruppo 70, e infine i contratti con gli esponenti newyorkesi del movimento internazionale Fluxus, al quale l’artista aderì partecipando, nel 1962, al Fluxus internationale Festspiele neuester Musik di Wiesbaden.
Oltre che nell’ambito di significative rassegne collettive, da Documenta 5 di Kassel (1972) alla Biennale di Venezia (1972; 1976; 1978) a quella di Sidney (1990), C. ha sviluppato il suo complesso percorso artistico attraverso numerosi concerti e performances in Europa e negli Stati Uniti.
Sostenitore dell’interazione tra musica, linguaggio, gesto e immagine, C. ha elaborato azioni che si ricollegano alle esperienze neodadaiste e concettuali: brevi brani confluiscono, di volta in volta e senza un ordine prestabilito, in complesse pièces musicali, tese a esaltare la libertà espressiva e il concetto di indeterminazione del fare artistico. C. ha infatti composto “musica d’azione” basata su un complesso metodo di esecuzione che, accanto agli strumenti tradizionali, assume come componenti essenziali elementi sonori casuali o aleatori (acqua, foglie secche, sassi) che offrono lo spunto per rielaborazioni e azioni che trovano proprio nella casualità e nell’improvvisazione la costante essenza della sua ricerca (Gesti su un piano, 1962; La Strada, 1965; Suonare la città, 1965). Dalle prime partiture, in cui i segni delle note o le rappresentazioni grafiche dei gesti da compiere assumono un’evidenza visiva tale da imporsi anche quali immagini autonome, e puri prodotti visuali, C. è giunto a sperimentare mezzi espressivi diversi: dai collages a soluzioni pittorico-gestuali elaborate con segni, scritte e timbrature su pentagrammi, spartiti, fotografie, che trovano negli anni Ottanta piena e matura espressione. La sua opera grafica e pittorica è in parte conservata presso il Centro internazionale di arte contemporanea Tornabuoni di Firenze.
Tra i suoi scritti: Musica senza contrappunto (1969); Senza titolo (1971); Musica madre (1973); Teatrino (1974); Arte (1974); Metodo per suonare (1976); Aesthetik (1984); Dubbio sull’armonia (1990); Musica et cetera (1994).


ChiariGiuseppe_Fluxus_hi

Fluxus

Vernice su tela

96 x 250 cm

1985

giuseppe chiari2

Senza Titolo

Penna su carta

21 x 29,6

2000

giuseppe chiari

Senza Titolo

Penna su carta

21 x 29,6

1997

03_Chiari Giuseppe_senza titolo_materiali vari_30x42cm

Senza Titolo

Materiali vari

30 x 42 cm

La strada e la musica 

Concerto-incontro-mostra di partiture-oggetti-libri

Performance di GIUSEPPE CHIARI, conferenza dibattito con G.Antognozzi, P. Coteni, A.Colimberti, W.Tortoreto

15 marzo – 15 aprile 1997

VEDI EVENTO
Elisabetta Celenza_senza titolo_gessetto su carta_50x35

Celenza Elisabetta

Nata a Vasto (Chieti) nel 1972. Pittrice e grafica, si è diplomata presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata sotto la guida dei professori Anna Maria Cognigni e Raoul Batocco. Ha esposto in varie città: nel 1995 è stata selezionata per una collettiva a Trieste dalla Fondazione Karaian; negli anni seguenti ha partecipato a varie mostre organizzate dall’Accademia di Belle Arti di Macerata, fra cui si citano la Mostra al Comune di Filottrano nel 1996, la Collettiva per l’Incisione tenuta nel Palazzo Contini di Macerata nel 1997 e la Rassegna Città d’Arte Moderna a Ripe nel 1999. Sue opere si trovano in diverse collezioni private.


Elisabetta Celenza_senza titolo_gessetto su carta_50x35

Senza titolo

Gessetto su carta

50 x 35 cm

Il tema della figura prevale nella pittura di Elisabetta Celenza e costituisce il fulcro di una narrazione ove convivono senza distonie razionalità ed istinto, idee ed emozioni, in un tessuto stilistico originale ed efficace. Figure femminili enigmatiche, inquiete, sensuali si svelano nei volumetrici ritmi delle forme e dei colori, da cui emergono talora come creature di sogni impossibili sorprese in una lenta metamorfosi; figure che ci riconducono inevitabilmente alle problematiche sempre attuali dell’universo donna, con il portato dei sentimenti e delle pulsioni che vi si connettono irrefutabilmente.
Interpretazioni diverse, sempre appassionate e dense di emozionali rilievi, quelle che Elisabetta Celenza compie nel traslare le tematiche dalla creatività alle opere, nelle quali rende tattile la corporeità e l’interiorità dei soggetti attraverso una decisa scansione lineare e una strutturazione cromatica vivace, ricca di contrasti. Si comprende che la pittura per lei non è esercizio mimetico di un piacevole, occasionale abbandono alla forma, al colore, al soggetto, ma risposta sincera agli interni fremiti e travagli dell’anima, che dall’indistinta sfera dell’intuizione pas­sano alla magica dimensione della fantasia per assumere una simbolica identità. Un’identità, tuttavia, non ricostruita nell’alveo di stereotipati canali di bellezza, ma con registri espressivi spesso drammatici, a volte persino crudi, pervasi di forte tensione, dove le immagini sembrano quasi scultoreamente modellate dai colori, dalle luci, dai contrasti timbrici, dai movimentati ritmi delle masse cromatiche. Le figure create da Elisabetta Celenza sono maschere di un’esistenza osservata con occhio disincantato; intensamente espressive, dai tratti anatomici alterati, dalle nudità ostentate, esse sono altresì simboliche parvenze di uno smarrimento di valori, cui implicitamente l’artista ci richiama con l’incisiva espressività delle sue validissime opere.

S. Perdicaro

Catania Lucilla

Catania Lucilla

27

Lucilla Catania nasce a Roma. Frequenta l’Accademia di Belle Arti di via Ripetta diplomandosi in scultura con Emilio Greco. Fra il 1980 e il 1981 si stabilisce in Francia per ragioni di studio. A Parigi conosce César attraverso il quale entra in contatto con la ricerca artistica internazionale. Nel 1982, al suo rientro a Roma, inizia a realizzare una serie di sculture in terracotta che contengono i fondamenti della sua poetica, già da allora decisamente autonoma e svincolata sia dalle tendenze analitico/concettuali sia da quelle neoinformali. La sua ricerca artistica aspira a un’idea di scultura che unisca in sé i connotati classici della tridimensionalità e la coscienza dei nuovi codici socio-culturali del contemporaneo. Dopo alcune collettive in Italia e all’estero, Lucilla Catania partecipa nel 1985 alla mostra Nuove trame dell’arte, curata da Achille Bonito Oliva. È durante il 1985 che l’artista gradualmente interrompe la lavorazione della terracotta e scopre la pietra e il marmo, materiali che di lì in poi saranno protagonisti di un nuovo ciclo di lavoro. La compattezza e il livello di definizione e compiutezza formale al quale il marmo consente di arrivare, accelerano, nella sua ricerca, il processo di spoliazione da ridondanze formali, giungendo a volte a una dimensione di immaterialità e di assenza di gravità.

 

 

 

Sito web: www.lucillacatania.com


Catania Lucilla

Senza titolo

Disegno

21 x 29,7 cm

catamo 2

Catamo Elisabetta

Nata a Roma, dove risiede e lavora.
Dal 1978 insegna all’Accademia di Belle Arti, titolare della cattedra di Decorazione a Firenze. L’attività artistica prende avvio alla metà degli anni ’70.
Dalla pittura passa alla fotografia fino a sconfinare nella realtà tridimensionale con strutture e istallazioni. Spazi mentali carichi di mistero, sottilmente spiazzati che invitano alla meditazione.
La ricerca continua sperimentando tecniche diverse.
Recentemente premiata alla Biennale d’Arte Contemporanea al Cairo, ha partecipato a mostre collettive in Italia e all’estero. Personali: Roma, Milano, Torino, Trieste, Sorrento, Bari, Londra, Tokio, Amsterdam, Parigi.


catamo 2

Senza titolo

foto

50 x 70 cm

1985

 

Catamo 2

Senza Titolo

Foto

50 x 70 cm

1985

L’organico metafisico

Mostra personale di ELISABETTA CATAMO

7 aprile – 10 maggio 1985

VEDI EVENTO
tullio catalano_stampa_21x29,7cm_1988

Catalano Tullio

Tullio_Catalano_-_1984

Tullio Catalano è nato a Roma il 20 dicembre 1944. È titolare di cattedra all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila. Dal 1962 orienta la sua attenzione operativa nei riguardi dell’arte visiva, ponendo l’accento sui rapporti connessi dell’intero e mediale sistema d’arte. Alla fine degli anni ’60 fonda, con Giancarlo Politi, il periodico d’informazione specifica Flash Art. Analizza i diversi media linguistici e li sperimenta attraverso la pittura, la performance, le azioni, il disegno, la fotografia, la scrittura, la grafica, la didattica, il film, il videotape, gli interventi sul territorio, privilegiandone il momento ideologico induttivo. Nel 1973 fonda l’Ufficio Consigli per Azioni e L’Ufficio Immaginazione Preventiva. Alla fine degli anni ’70 fonda con Carlo Romeo la rivista Autrib 17139 – 17149. Inoltre dal ’70 in poi focalizza i suoi obiettivi critici attivando gli innumerevoli aspetti e variegati assunti della editoria alternativa, dell’animazione audiovisiva, della fotografia e del cinema sperimentale, espletando in questi ambiti l’unitarietà e la continuità della sua attività artistica e professionale, nonchè della sua visione e vocazione poetica.


tullio catalano_stampa_21x29,7cm_1988

Senza titolo

Stampa

21 x 29,7 cm

1988

L'”opus” artistico di “Ibidem” (1972) si fonda nella sostanza di una vera e propria summa poetica, ma sarebbe meglio dire analitica, che scaturisce da una continua scadenza di verifica metodologica, senza esclusione di conferme e rimesse a fuoco successive. Ci si avvale, così, degli elementi di una smentita filologia interpretativa, ancora tutta da riproporre, appartenente ad una più amplificata articolazione per tesi e generi prescritti, con una attenta e puntuale regia, circostanziata ed esemplificativa, della prassi estetica, cumulativa e performativa; nel senso, almeno, che questi termini stanno ad indicare nella loro formulazione connotativa e funzionale, prima che diventino categorie allusive all’interno del sistema di conduzione dell’immagine, suffragando l’egemonica esibizione di canonizzate, eterodosse comunque, tipologie espressive. Se quello che interessa, e qui è il fulcro portante della diagnosi cognitiva prelimini, indubbiamente come dato preliminare da dimostrare – sia pure per approssimazione e per difetto – è la rivoluzione del concetto, sempre più perfettibile, di “rappresentazione” e la conseguente, contigua e connessa occasione dell’immagine, disattivando il suo filtro omologativo, abilitato ad aggiungere e a restituire, per sostituzionem simplicem, immagine all’immagine, fin sulla soglia introiettiva del suo esaurimento iconologico, e della sua aniconica sovrapposta riduzione assertiva. La nota asserzione kafkiana, poi, in cui si esprime una sarcastica riserva sulle effettive capacità di istituire un rapporto osmotico e partecipe con l’osservatore nella spettacolarizzazione filmica (“io vivo con gli occhi, e il cinema impedisce di guardare”), investe attualmente tutta la sfera dell’arte e l’interezza fenomenologica dei supporti indiziari e delegati alla propria nobile designazione ubicativa: continuando a riciclarsi e sopravvivere indenni laddove, all’atto della loro decadenza periodica non vengono accantonati e destituiti, marcando correttivi di debita e assegnata coesistenza – allo scopo redatti – di consumo subliminare. Pertanto all’acme della debordiana “società dello spettacolo”, è lo spettacolo che spettacolarizza se stesso, avendone gli strumenti autonomi di sviluppo e l’autorizzazione – la nostra – a procedere, come è l’oggetto a oggettivare se stesso e il mondo, governato da una lassista a-nomia: compete al soggetto, che non s’illude più di aspettare Godot, lo scantonamento della propria discutibile identità, ormai irreversibilmente in prestito, puro ostaggio testimoniale offerto in pasto alla ritualità interrotta di un indelebile – ma presunto, fino a prova contraria – “transfert” comunque delocativo. L’unica, a questo punto, è agire su vari livelli di guardia e di confine, ai bordi estremi dei vasi comunicanti (divenuti occlusi per la ridondanza amorfa e monocorde dei significati immessi) del circuito artistico, prima e dopo la trappola adescata delle relative allocuzioni e denominazioni, dei sinonimi e neologismi correnti e d’obbligo. Proprio con “Ibidem”, invece, il mezzo investigativo assume il ruolo specifico di una dilatazione alternativa – non meramente retinica – dello spazio e del tempo, oggetto medesimo d’azione e d’impiego questa volta alla stessa stregua, indifferentemente, del duchampiano reperto “trouvé”, corruttibile eppure smagliante nella singolarità unica della sorpresa e della ri-scoperta (ma non si sapeva forse che l’invenzione altro non significa che reperire, letteralmente e di fatto, quello che, precedentemente, sicuramente e paradossalmente, è già stato), perseguita con quella che Sören Kierkegäard, profeticamente, già chiamava, dunque, l'”angoscia della ripetizione “. La sua logica non procede per salti, ma per scarti e pause, per aritmie sincopate e disarmonie tichiche interagenti su piani e fonti inconciliabili, interdetti allo scadimento temporaneo della iterazione dei giudizi di scelta, limati e tarati su misura….Un caso emblematico in questo senso, è costituito dalla emancipazione del concetto di citazione, in cui l’idea di superstite e togata di simulcro viene proiettata ulteriormente su se stessa. Dopo l’azione viene ripetuta in altra sede: ma, nel frattempo, l’atto creativo scade e il ” Pattern ” viene ugualmente proiettato perdurando nell’ambito della sua trattazione inerziale. Questo significa che l’immagine e la realtà si inseguono alla ricerca di una soluzione più definitiva, pena la scomparsa della pura e ingombrante corporeità fisica, per quanto analogicamente virtuale. I trucchi dell’arte, come quelli dell’anima, sono infiniti. Si sfronda l’atto mancato del garantismo estetico e del suo consumo ad oltranza, rimandandolo al complesso gioco rivendicativo delle finzioni, e si sancisce il problematico iato tra téchne ed episteme, dissociazione latente e probativa tra significante e significato, separazione ossimora tra langue e parole, tra arte e scienza, corrispondente alla struttura, così decrittata, di una ulteriore, se non ultimativa, codificazione linguistica. Ma l’immagine, si sa, è il corollario dell’immaginario, e il suo postulato è l’immaginazione: questa necessita di una tecnica, e la sua ideologia ne è, per quanto si dissimuli, una specie. Anche perché nulla c’è di più ” reale “, contrariamente ad un pregiudizio diffuso, proprio dell’immaginazione, organo predisposto alla formazione di inediti modelli di comportamento, braccio disacronicamente o sincronicamente estensibile in modo pressoché illimitato a surclassarne il limite, allo scadere incontrollato e preventivo del suo utopico e distopico statu quo. L’insieme azzerante, in mobilitazione progressiva dei linguaggi prescelti, quando prossimi ad una futuribile estinzione, decatalogati integri previa consultazione dell’unità discriminante del valore ad ogni costo aggiunto, che acquista credito nominale al momento in cui perde consistenza reale, tende effettivamente a suggerire ed imporre una tecnica operativa d’immagine comunque complementare o paritetica, ma non assimilabile o equipollente, stocasticamente non ascrivibile al dettato sovraesposto della valenza ideologica. Dopo la destabilizzazione precaria di un nucleo di riferimenti certi, cui confidare l’insorgenza a rischio di attardati contenuti soteriologici ai gabellieri delle coscienze di turno, non ci sono più tempi previsti e supplementari idonei ad ospitare rassicuranti brevetti di etimo o di stile, nella terra di nessuno dell’hic et nunc, anch’esso in via inappelabile di rimozione. L’ideologia è, quindi, se ancora non fosse chiaro ( a dispetto dei cultori recidivi targati ” falce e pennello “), il materiale su cui opera, manipolando e modificandolo, il flusso pulsionale, enantioforme, polisenso, apparentemente ininfluente del linguaggio, in vista di quel suo deliberato risultato appropriativo di una mai cessata attitudine critica che si sostituisce ed aggiunge al puro atto – e alla determinazione risolutiva – del fare artistico. Un simile e onnicomprensivo – starei per dire frontistico – progetto critico, che sta alla base dell’analisi affabulativa ed espressiva di ” Ibidem ” ha in ogni caso a che fare, in piena e lucida consapevolezza, con quella che viene definita ” rimozione “: rimozione dall’incubo ammorbante del cattivo odore della storia e dal pettegolezzo gratificante della cronaca, variabili terminali ubicui, in prova perenne e attesa coatta di cambio – e scambio – di destinazioni d’uso. La congerie alimentata, sedimentata e cumulativa dei segni preposti alla distribuzione informe dei messaggi, ad onta della sua scompensata istantaneità di lettura, fa sì che proprio il linguaggio è l’incognita, lo sconosciuto, l'”altro”, l’anello mancante che lo collega finalmente all’ideologia, intesa come dichiaratamente proditoria maschera della realtà. Lo spostamento che consegue, infine, alla sua convenzionale superstizione sociale, è quello indifferenziato del punto di partenza, situato nelle zone d’ombra di metaforiche e prensili trasposizioni, di rafferme camere oscure in cui il batticuore del desiderio renda pari il conto con il – brutto, disarmante e indimenticabile – sogno ad occhi aperti della storia.

Tullio Catalano

 HISTOIRE D’OEIL (Glaucomi)

Mostra d’Arte Contemporanea di Tullio Catalano e Carmelo Romeo

11 giugno- 30 luglio 1988

VEDI EVENTO