L'”opus” artistico di “Ibidem” (1972) si fonda nella sostanza di una vera e propria summa poetica, ma sarebbe meglio dire analitica, che scaturisce da una continua scadenza di verifica metodologica, senza esclusione di conferme e rimesse a fuoco successive. Ci si avvale, così, degli elementi di una smentita filologia interpretativa, ancora tutta da riproporre, appartenente ad una più amplificata articolazione per tesi e generi prescritti, con una attenta e puntuale regia, circostanziata ed esemplificativa, della prassi estetica, cumulativa e performativa; nel senso, almeno, che questi termini stanno ad indicare nella loro formulazione connotativa e funzionale, prima che diventino categorie allusive all’interno del sistema di conduzione dell’immagine, suffragando l’egemonica esibizione di canonizzate, eterodosse comunque, tipologie espressive. Se quello che interessa, e qui è il fulcro portante della diagnosi cognitiva prelimini, indubbiamente come dato preliminare da dimostrare – sia pure per approssimazione e per difetto – è la rivoluzione del concetto, sempre più perfettibile, di “rappresentazione” e la conseguente, contigua e connessa occasione dell’immagine, disattivando il suo filtro omologativo, abilitato ad aggiungere e a restituire, per sostituzionem simplicem, immagine all’immagine, fin sulla soglia introiettiva del suo esaurimento iconologico, e della sua aniconica sovrapposta riduzione assertiva. La nota asserzione kafkiana, poi, in cui si esprime una sarcastica riserva sulle effettive capacità di istituire un rapporto osmotico e partecipe con l’osservatore nella spettacolarizzazione filmica (“io vivo con gli occhi, e il cinema impedisce di guardare”), investe attualmente tutta la sfera dell’arte e l’interezza fenomenologica dei supporti indiziari e delegati alla propria nobile designazione ubicativa: continuando a riciclarsi e sopravvivere indenni laddove, all’atto della loro decadenza periodica non vengono accantonati e destituiti, marcando correttivi di debita e assegnata coesistenza – allo scopo redatti – di consumo subliminare. Pertanto all’acme della debordiana “società dello spettacolo”, è lo spettacolo che spettacolarizza se stesso, avendone gli strumenti autonomi di sviluppo e l’autorizzazione – la nostra – a procedere, come è l’oggetto a oggettivare se stesso e il mondo, governato da una lassista a-nomia: compete al soggetto, che non s’illude più di aspettare Godot, lo scantonamento della propria discutibile identità, ormai irreversibilmente in prestito, puro ostaggio testimoniale offerto in pasto alla ritualità interrotta di un indelebile – ma presunto, fino a prova contraria – “transfert” comunque delocativo. L’unica, a questo punto, è agire su vari livelli di guardia e di confine, ai bordi estremi dei vasi comunicanti (divenuti occlusi per la ridondanza amorfa e monocorde dei significati immessi) del circuito artistico, prima e dopo la trappola adescata delle relative allocuzioni e denominazioni, dei sinonimi e neologismi correnti e d’obbligo. Proprio con “Ibidem”, invece, il mezzo investigativo assume il ruolo specifico di una dilatazione alternativa – non meramente retinica – dello spazio e del tempo, oggetto medesimo d’azione e d’impiego questa volta alla stessa stregua, indifferentemente, del duchampiano reperto “trouvé”, corruttibile eppure smagliante nella singolarità unica della sorpresa e della ri-scoperta (ma non si sapeva forse che l’invenzione altro non significa che reperire, letteralmente e di fatto, quello che, precedentemente, sicuramente e paradossalmente, è già stato), perseguita con quella che Sören Kierkegäard, profeticamente, già chiamava, dunque, l'”angoscia della ripetizione “. La sua logica non procede per salti, ma per scarti e pause, per aritmie sincopate e disarmonie tichiche interagenti su piani e fonti inconciliabili, interdetti allo scadimento temporaneo della iterazione dei giudizi di scelta, limati e tarati su misura….Un caso emblematico in questo senso, è costituito dalla emancipazione del concetto di citazione, in cui l’idea di superstite e togata di simulcro viene proiettata ulteriormente su se stessa. Dopo l’azione viene ripetuta in altra sede: ma, nel frattempo, l’atto creativo scade e il ” Pattern ” viene ugualmente proiettato perdurando nell’ambito della sua trattazione inerziale. Questo significa che l’immagine e la realtà si inseguono alla ricerca di una soluzione più definitiva, pena la scomparsa della pura e ingombrante corporeità fisica, per quanto analogicamente virtuale. I trucchi dell’arte, come quelli dell’anima, sono infiniti. Si sfronda l’atto mancato del garantismo estetico e del suo consumo ad oltranza, rimandandolo al complesso gioco rivendicativo delle finzioni, e si sancisce il problematico iato tra téchne ed episteme, dissociazione latente e probativa tra significante e significato, separazione ossimora tra langue e parole, tra arte e scienza, corrispondente alla struttura, così decrittata, di una ulteriore, se non ultimativa, codificazione linguistica. Ma l’immagine, si sa, è il corollario dell’immaginario, e il suo postulato è l’immaginazione: questa necessita di una tecnica, e la sua ideologia ne è, per quanto si dissimuli, una specie. Anche perché nulla c’è di più ” reale “, contrariamente ad un pregiudizio diffuso, proprio dell’immaginazione, organo predisposto alla formazione di inediti modelli di comportamento, braccio disacronicamente o sincronicamente estensibile in modo pressoché illimitato a surclassarne il limite, allo scadere incontrollato e preventivo del suo utopico e distopico statu quo. L’insieme azzerante, in mobilitazione progressiva dei linguaggi prescelti, quando prossimi ad una futuribile estinzione, decatalogati integri previa consultazione dell’unità discriminante del valore ad ogni costo aggiunto, che acquista credito nominale al momento in cui perde consistenza reale, tende effettivamente a suggerire ed imporre una tecnica operativa d’immagine comunque complementare o paritetica, ma non assimilabile o equipollente, stocasticamente non ascrivibile al dettato sovraesposto della valenza ideologica. Dopo la destabilizzazione precaria di un nucleo di riferimenti certi, cui confidare l’insorgenza a rischio di attardati contenuti soteriologici ai gabellieri delle coscienze di turno, non ci sono più tempi previsti e supplementari idonei ad ospitare rassicuranti brevetti di etimo o di stile, nella terra di nessuno dell’hic et nunc, anch’esso in via inappelabile di rimozione. L’ideologia è, quindi, se ancora non fosse chiaro ( a dispetto dei cultori recidivi targati ” falce e pennello “), il materiale su cui opera, manipolando e modificandolo, il flusso pulsionale, enantioforme, polisenso, apparentemente ininfluente del linguaggio, in vista di quel suo deliberato risultato appropriativo di una mai cessata attitudine critica che si sostituisce ed aggiunge al puro atto – e alla determinazione risolutiva – del fare artistico. Un simile e onnicomprensivo – starei per dire frontistico – progetto critico, che sta alla base dell’analisi affabulativa ed espressiva di ” Ibidem ” ha in ogni caso a che fare, in piena e lucida consapevolezza, con quella che viene definita ” rimozione “: rimozione dall’incubo ammorbante del cattivo odore della storia e dal pettegolezzo gratificante della cronaca, variabili terminali ubicui, in prova perenne e attesa coatta di cambio – e scambio – di destinazioni d’uso. La congerie alimentata, sedimentata e cumulativa dei segni preposti alla distribuzione informe dei messaggi, ad onta della sua scompensata istantaneità di lettura, fa sì che proprio il linguaggio è l’incognita, lo sconosciuto, l'”altro”, l’anello mancante che lo collega finalmente all’ideologia, intesa come dichiaratamente proditoria maschera della realtà. Lo spostamento che consegue, infine, alla sua convenzionale superstizione sociale, è quello indifferenziato del punto di partenza, situato nelle zone d’ombra di metaforiche e prensili trasposizioni, di rafferme camere oscure in cui il batticuore del desiderio renda pari il conto con il – brutto, disarmante e indimenticabile – sogno ad occhi aperti della storia.
Tullio Catalano