Il MU.SP.A.C. Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea ha inaugurato martedì 26 marzo 2019 alle 18,30, la mostra di Bruna Bontempo dal titolo “fluire”.
Come spiega l’artista, il progetto nasce dall’esigenza di voler collegare metaforicamente il Gran Sasso alla storia della città dell’Aquila, creando connessioni emozionali tra viaggio, movimento, visione, mente, corpo e sensi. Fluire rappresenta dunque un movimento fluido, una simbiosi metaforica che determina, per dirla come la scrittrice Giuliana Bruno, una “narrazione geografica emozionale”. Allontanandosi dai primi lavori più legati ad una matericità della pittura, per questa mostra Bontempo sente la necessità di esprimersi in nuove forme, esponendo una serie di opere realizzate nell’arco degli ultimi anni, in cui il tema del paesaggio è analizzato e restituito attraverso un linguaggio più astratto, fatto di linee, segni, tracce, percorsi. La varietà delle cromie si riduce a un campionario di tinte preferite e le forme si fanno sempre più semplificate e minimali. L’artista riflette sul suo rapporto con la natura del territorio in cui è nata e in cui vive, un rapporto pacifico, sentimentale, come quello che i pittori romantici inglesi dell’800 avevano con il paesaggio. Il Gran Sasso è al centro dei suoi pensieri e del suo universo poetico, tanto da riprodurlo in varie dimensioni e da renderlo oggetto tascabile. Un’ossessione, come quella di Paul Cezanne per la montagna Sainte-Victoire. Nel tentativo di catturarne ogni piccola insenatura, il Gran Sasso perde i suoi connotati reali, ci sembra irriconoscibile, diventa qualcosa di astratto, in continuo mutamento, risvegliando un paesaggio interiore di amore e spiritualità.
L’evento rientra all’interno del progetto “Museo Vivo della Città Territorio per la rinascita dell’Aquila”.
Di seguito i testi critici che hanno accompagnato l’esposizione.
La Montagna Sacra di Martina Sconci
Respiro, libertà, poesia e vibrazione emotiva sono solo alcuni dei tratti salienti di questo nuovo ciclo di lavori di Bruna Bontempo che hanno come comune denominatore il Gran Sasso, “la bella addormentata” – come la chiamano gli abitanti di questo territorio – perché il suo profilo, arrivando dall’autostrada, assomiglia a quello di una donna che dorme, sospesa tra la terra e il cielo. Richiamando ricordi infantili, Bruna si interroga sulle profondità naturali, ritrovando la propria identità nella sua terra, per conoscere a fondo, attraverso la trascrizione pittorica, ciò che l’atto della visione le suggerisce. La montagna diventa per lei un’ossessione, come quella di Paul Cezanne per la montagna Sainte-Victoire. Nel desiderio spasmodico di possederla, la riproduce in infinite forme e dimensioni, la rende oggetto tascabile. Nel tentativo di catturarne ogni piccola insenatura, le fa perdere i suoi connotati reali, rendendola irriconoscibile, trasformandola in qualcosa di astratto, in continuo mutamento, rivelatrice di un paesaggio interiore. Ricordandoci che lo spazio è dotato di un sentire e di una sensibilità che spesso si contrappone a quella dell’uomo, Bruna diventa la nostra guida spirituale, ci conduce nei suoi viaggi sentimentali in cima alla “montagna sacra” (fantomatica e misteriosa montagna, raccontata da Alejandro Jodorowsky sulla cima della quale, secondo l’Alchimista, si trovano nove immortali custodi del segreto riguardo la verità del mondo e della vita), la offre al nostro sguardo, per condividere con noi le sue visioni e intuizioni, svelandoci la freschezza e l’inesauribile curiosità del suo spirito di ricerca. Ciò che le interessa non è descrivere il paesaggio ma le sensazioni che evoca. Idee e sentimenti personali prendono forma attraverso accordi armoniosi di linee, colori, luci che riempiono lo spazio di bellezza. L’allontanamento dalla quotidianità frenetica del contemporaneo e la riappropriazione dell’interiorità si ritrova attraverso un rapporto approfondito e intenso con il luogo e si manifesta nei lavori di Bruna con una scrittura della natura fatta di tracce di colore e segni minimali, che sembrano richiamare stati emotivi inconsci. Sono i percorsi attorno alla “grande montagna”, ripresi dagli itinerari e sentieri di Stefano Ardito, che risvegliano un paesaggio di solitudine, amore e dolore, ridando vita a preziosi frammenti della vita dell’artista. Svolto con grande passione e determinazione, il lavoro di Bruna trasmette però non solo un ritorno nostalgico al tempo vissuto, ma un cambiamento diretto verso livelli di comprensione più ampi ed elevati. L’oro, presente nel grande dipinto del Gran Sasso, si fonde con il bianco bagliore della neve, richiamando sia il mondo materiale sia quello spirituale. Non a caso, nella tradizione alchemica, l’oro viene abbinato alla luce del sole, rappresenta l’ideale di perfezione ed è simile allo spirito. Nel corso delle stagioni, la montagna si trasforma, assumendo diverse tonalità di colori e bagliori di luce che ritroviamo nel grande lavoro composto da cento tavolette. Al contatto con il cielo sembra comunicarci una certa sacralità, espandendo la nostra percezione e concezione del mondo. I segni e le forme della montagna diventano nelle opere di Bruna attori di un’infinita, incomparabile poesia del pensiero e del sogno. Il Fluire rappresenta una sorta di vagabondare tra le linee della natura, tra l’immobilità del paesaggio e la fredda aria del cielo, senza meta, ansiosi di provare emozioni intense e di essere testimoni privilegiati di una realtà che, per essere osservata e interpretata, esige che ci si abbandoni ad essa. Attraverso pratiche artistiche e materiali differenti, in questa mostra Bruna sa concentrare meravigliosamente le “mille voci che cantano in lei”, riscoprendo una poetica dell’intimità, della quiete e del silenzio, manifestando la capacità tutta femminile di desiderare qualcosa e farla, spostando i propri confini sempre leggermente in avanti. Ci ricorda che l’esercizio dell’arte, la sua pratica, il suo enigma, rappresentano qualcosa di fondamentale, per noi stessi, per il nostro inconscio, per il mondo. Forse per questo Bruna trasforma la montagna in un simbolo, in un segno – scultura, o semplice oggetto, da portare in tasca per sentirci protetti, come fosse una reliquia: un piccolo dono divino della montagna sacra.
Breve nota su un paesaggio di Cecilia Canziani
Davanti a me, posato sulla scrivania, ho un piccolo oggetto che guardo spesso. È una delle sculture che Bruna Buontempo ha realizzato lo scorso anno, una riproduzione in scala del Gran Sasso, che ha realizzato in diverse misure e colori. Quella che ora guardo è rosa. Una piccola montagna rosa, perfetta nello spazio di qualche centimetro, con avvallamenti, salite, picchi, e percorsa da linee che sono certamente quelle conferite dalla stampa in 3D, ma che rappresentano anche le quote altimetriche della montagna, restituendola come una serie di linee. Insomma, ho una montagna che sta in una mano, una scultura da passeggio, di un colore che è quello che a volte il tramonto o l’alba conferiscono al paesaggio. Se sposto lo sguardo di qualche decina di centimetri incontro un’altra montagna: una piccola fotografia del Monte Grappa, scattata da mia nonna nel secondo dopoguerra, che a me sembra inscrivere la storia della mia famiglia nella Storia del mio paese. (Mi stupisce sempre il fatto che le foto di una volta fossero così piccole, che più che riconoscere visi e luoghi li si debba indovinare). La vicinanza tra questi due oggetti del tutto diversi è casuale, eppure oggi a pensarci mi sembra che non sia pretestuosa, e che chiarisca in un colpo d’occhio quanto complessa sia – sempre – ogni immagine e ogni indagine sul paesaggio, proprio perché esso condensa tante diverse possibili letture e accezioni. Quando Bruna Buontempo stava iniziando a lavorare al suo progetto, mi ricordo che mi aveva detto di avere realizzato un Gran Sasso in miniatura per poterlo portare sempre con sé: mi aveva colpito questo trasformare un sentimento – il senso di un luogo – in un gesto. Il paesaggio è un genere longevo nella storia dell’arte, e in tempi più recenti è stato declinato anche attraverso la pratica dei luoghi, o restituito in forma di prelievo diretto dalla natura, ma la versione di Bruna mi aveva fatto pensare a una cosa più domestica e intima, come la necessità di tradurre una visione in qualcosa che può stare in tasca, che si può cercare con le dita, e da cui trarre forza e felicità. Trasformare un genere in un gesto mi sembra ancora adesso un’operazione potente, nella sua semplicità. La piccola scultura che guardo, fatta di colore e di linee, mi sembra condensare in fondo tutta la ricerca dell’artista: l’appartenenza a un luogo che è sia immagine, sia spazio praticato (attraverso la memoria, con il corpo, attraverso il racconto, attraverso gli archivi); il paesaggio come motivo, ma anche la scelta di un paesaggio specifico che intreccia una storia individuale alle storie di altri; l’essere dentro quel paesaggio come registrazione di un tempo personale e di un tempo che non ci appartiene, un tempo geologico che fa a meno di noi; infine la necessità di registrare questo luogo attraverso la pittura e la scultura, la linea e il volume. Così in forma di frammento, attraverso una miniatura, penso di poter immaginare la mostra che l’artista sta componendo e che conclude una lunga fase di ricerca e di lavoro sull’idea di luogo e su un luogo specifico, al quale continua a guardare.