In questa seconda metà degli anni ottanta, il profilo dell’arte contemporanea va delineandosi in tutta lo sua crudezza: ad un’improponibile avanguardia, praticabile nominalisticamente con giochi linguistici di prefissi e suffissi variamente combinati (ismo, neo, post, iper…), fa riscontro una scadente produzione artistica caratterizzata da un epigonismo nomade ed eclettico. La storia dell’arte è il deposito cui attingere, sacchegiando senza remore lezioni di Maestri e Movimenti, mescolando gli stili e citando a più non posso, oro in maniera dotta, ora in maniera rozza, i brani significativi della cultura visiva. L’immaginario è cosi costretto a fare il verso a singoli capolavori o ad intere epoche e poetiche, quasi che le deformazioni in positivo o in negativo di una classicità da rimettere in discussione, siano garanzia di autenticità; e rinnovamento, se non altro formale. L’Artista Orfeo tenta in tal modo di ritrovare lo luce di un sole spento (creatività), ma non resistendo al richiamo dell’Arte Euridice, si volta, in malo modo, decretando lo sua eterna dimora nel Tortaro. La morte dell’arte: da Hegel ad Argan il mento delle prefiche ha appena sfiorato il dolore dell’irreversibile perdita dell’aura, della pausa a dell’intervallo tra opera dotata di uno intrinseca sacralità (religiosa o laica) e destinataria del suo polisensico ed ambiguo messaggio. Resiste l’esile speranza della rinascita: parlando della Fenice, non si dice che essa muore, ma solamente che rinasce (R. Barthes). La sfida della Fenice, ovvero lo possibile di tornare a nuova vita senza perire. Tra i simboli del mito, cenere, fuoco e volo sono i più noti. Scarsa attenzione è stata doto al nido, il nido della Fenice, intrecciato ogni cinquecento anni con profumati ramoscelli di cassio, incenso, cinammono e nardo. Nido come topos placentare dove le linee della morte e della vita si confondono e fondono nel rinnovato sorgere di uno ciclica primavera. Questa rassegna, non è di tendenza, nè tanto meno di movimento, sostiene una sola tesi: lontano dai clamori del mercato e dalla ‘metastoria’ dello critica d’arte di parte o accademica, lavorano, o meglio operano, forti individualità; artistiche difficilmente etichettabili, sostenute da un unico credo poter spiccare un volo altro, orientato verso nuovi orizzonti espressivi. L’arte e lo sua storia sono di conseguenza situate tra la terra ed il cielo quale punto di contatto tra la visione del mondo degli uomini e quella degli dei. Il rito propiziatorio, il sacrificio necessario all’attenuazione del malessere e del disagio di sventure venute da lontano, necessita della continuare invenzioni ed immagini e simboli apotropaici. Il dejà vu, il contrabbando del kitsch, il vecchio fatto passare per antico, uccidono la vita, e non solo l’arte. Il nuovo contro lo novità, lo persistenza contrapposta all’effimero, lo tensione drammatica antagonista dell’inerzia ludica. Mostra da leggere trasversalmente, quindi, con lo più, ampia ed autonoma apertura interpretativa. Ogni artista presente, anche con una sola opera, tiene la ‘personale’ del cangiante universo poetico che, quando è grave, autentico, si abbevera nella sorgente dell’inquietudine. Non è lo quantità, ma una omogenea non gerarchizzabile qualità, a fare da tessuto connettivo ad una lingua viva, grammaticalmente sintatticamente fresca, in queste opere di Folci, Contestabile, D’Alfonso, Di Fabio, Gagliardi, Gioia, Liberatore, Mariani, Nannicola, Rainaldi, Servillo e Zjbbà. Il confronto generazionale può evidenziare inevitabili differenze tra chi dipinge e scolpisce da oltre quaranta anni e chi è appena agli esordi. Ma, gli scarti, sono annullati da una identica tensione creativa, innervata da un work in progress condotto all’insegna della sperimentazione formale e tecnica più avveduta. Nè va sottaciuta un’altra considerazione: l’albero scelto dalla Fenice per il suo nido affonda le radici nell’humus di una stessa “terra” (L’Aquila). Si cerchino, pertanto, i sottili, molteplici, impensabili legami esistenti tra artista e la linfa attinta direttamente da un fertile background (natura, storia, territorio, lingua…). La contemporaneità è coscienza delle contraddizioni del proprio tempo: spetta all’arte, quella vera s’intende, il privilegio di mettere a nudo o manipolazioni o pompierismi dal fiato corto. Si può ben essere laterali al quotidiano (moda/mercato), esclusi dai favori del Principe (istituzioni/mass-media), schiacciati dal disequilibrio delle forze in campo (centro/periferia), senza per questo rinunciare alla propria irriducibile specificità proiettata oltre il contingente. L’attualità della rassegna può essere intesa alla sola condizione di aver incontrato lo grazia di una insopprimibile libertà interiore: chi è dotato di antenne idonee, non avrà difficoltà a captare le tante – sfumature in termini di spiazzata problematicità esistenziale – percepibili in ogni opera proposta.
Antonio Gasbarrini
Mostra in due spazi per dodici artisti
Una bella strenna natalizia per gli amanti dell’arte e della cultura la mostra di pittura presentata dall’associazione ‘Quarto di Santa Giusta’ presso l’aula magna “Vincenzo Rivera” dell’Università. Allestita spartanamente, ma non per questo meno suggestiva, la collettiva com prende infatti le opere di do dici tra i migliori pittori abruzzesi: Rinaldi, Liberato re, Di Fabio, Nannicola, Contestabile, D’Alfonso, Zjbbà, Gagliardi. Servillo, Folci, Gioia e Mariani, in un confronto generazionale ali mentato da un serio sforzo di ricerca e da una notevole tensione creativa. Una gradita sorpresa e – bisogna dirlo – finalmente un po’ d’aria nuova in una città abituata solo a celebra re ed a celebrarsi, sempre in bilico tra un passato difficile ed un presente scoraggiante. Un’aria che viene proprio dal coraggio di essere moderni, di accettare in pieno la sfida con le contraddizioni del mondo attuale soppor tandone il rischio dell’emarginazione. La mostra è allestita in due sedi: piazza dei Gesuiti e via Crispomonti.
Chiuderà il 10 gennaio.
“Il Centro”,
mercoledì 24 dicembre 1986