Senza nome

LA FOTOGRAFIA DI JACQUES CLOAREC Mostra fotografica

19 Agosto – 19 Settembre 1987

Sylvano Bussotti regista, costumista, scenografo. Mostra di fotografia

Page 76 du Journal de SYLVANO BUSSOTTI à Zagarolo le 24 Avril 1986.

 

Il privilegio dell’amicizia e l’ammaestramento delle frequentazioni pluriennali apre alcune porte segrete, se possiamo utilizzare un’immagine cara a Cocteau, mantenendo chiusi ostinatamente gli accessi apparenti, passaggi falsi e trompe l’oeil; l’inganno, di regola nella fotografia, in amicizia resta incompatibile; così, a rigor di termini, non sapremmo mantenerci a lungo in fraterna e totale amicizia con un fotografo. Prima o poi, divenuto padrone delle sue macchine, consapevole dei propri obbiettivi, lascerà andare il dito sopra uno scatto infinitesimale dando corpo all’immagine “mostruosa” capace di sconvolgere. Criminale innocente il fotografo consegna impassibile la specie più pericolosa fra le razze di memoria, e ti blocca dinanzi allo specchio inafferrabile di una tetra condanna, colto sul fatto, inappellabile trastullo di una coscienza che la celluloide avvolge nelle spire soffocanti del serpente di Adamo. Simboli facili, a ben vedere, ma tangibili e affatto incontestabili.

Ho incontrato Cloarec nel 1972 e da quattordici anni, il tempo per una piena pubertà, ne vado spiando le mosse con precauzione, lieto se riesco a provocarne occasioni e opportunità galeotte su alcuni palcoscenici oppure all’ombra d’alberi in fiore. Parlo del fotografo ben inteso l’amicizia si concede ancor più raramente il gioco del sorprendere o i suoni origliati che allora, quando ci conoscemmo, andava fiero della propria abilità nel fare il burro, le marmellate e la salsa di pomodoro nella proprietà di campagna dove abita, e non mancava di riservare agli artisti svariati sarcasmi. Da me pienamente condivisi, del resto, la condizione d’artista, patita più che abbracciata, richiamandomi perennemente ad un numero incalcolabile di noie.

Ma il passaggio dal burro alla fotografia è in parte avvenuto sotto i miei occhi, senza colpo ferire, almeno apparentemente (e probabile che il burro di Cloarec sia tutt’ora squisito e che fin dal primo scatto che le sue dita imberbi davano alla classica scatoletta camera l’immagine spuntasse fuori originale) vendicando i poveri artisti e facendo dell’occhio del nostro fotografo una forma d’arte della coscienza. In teatro s’è mosso sempre con l’aria di chi conosca l’uscita dal fatale labirinto. Per l’amicizia questo potrà sembrare ancora un gioco di parole allusive al fatto che il colle dov’è situata la sua casa è appunto chiamato Labirinto; alla coscienza fotografica, viceversa il fatto apparirà normale. Quinte, fondali e parapetti o costruzioni e trabocchetti, percorsi da modelli alati nei costumi più folk, segnano una strada che va dritto alla fotografia senza deviazioni; la finzione è reale, il gioco vinto, le insidie debellate. L’immagine se ne esce con la perfezione paradossalmente a teatro naturale di un grazioso fantasma. Scendono nubi ad incarnarsi e volano piumaggi preziosi direttamente dalle carni di un ballerino al quadro sontuoso e vivente della rappresentazione irripetibile. Quasi che farraginosi melodrammi venissero allestiti appositamente per consentire agli obbiettivi di Cloarec di compiere il rito, ne ritroviamo documenti emozionati nei suoi scatti, pronti a giurare di non saperne niente.

Dire infine come il segreto principale risieda probabilmente nell’idea di “dar corpo” non è del tutto inutile. Si ammirano appunto alcuni corpi sullo smalto brillante di alcune foto e la lettura di questi corpi appare artistica ancor prima che un concetto di fotografia sia pronto ad illustrarli. Ma è raro, da pane d’un artista, sentire ammettere il corpo stesso come modello ancestrale per tutte le arti. Ci voleva l’obbiettivo della fotografia, pittura divenuta scienza esatta e la testarda pazienza d’un campagnolo. Scherzo.

Vigente ancora agli orli del millennio c’è un sentimento che cresce, selvatica erba, dal fecondo apparire degli umani; siano essi travestiti a teatro o svestiti e legati al palo d’un rogo silvestre. Cloarec è questo sentimento che possiede, dalla diteggiatura studiata lungamente su tastiere improbabili, in grado d’intonare immagini così musicali da sbugiardare, delle belle arti, i riti separati e tabù. Lo vedo da quando lo guardo e vedo e guardo quel che l’amico ha visto.

Sarebbe, la fotografia, l’arte dalle tecniche straordinarie elaborate specialmente per l’amicizia?

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LA MUSICA INUDIBILE ALBERT MAYR

13 Marzo 1987

La Musica Inudibile – Annotazione per un’ ecologia del tempo. Conferenza, Performance, mostra di materiali didattici

 

 

 

Della “musica inudibile” parlò a suo tempo Boezio. Ma con scarsi risultati se, dopo circa un millennio, le sue teorie furono accantonate nel dimenticatoio. E della musica inudibile si torrnerà a parlare (probabilmente in maniera un pò insolita) con Albert Mayr, domani pomeriggio alle 17:30 presso il Centro Multimediale «Quarto di Santa Giusta». Secondo Albert Mayr, infatti, in diverse culture, sia pur a noi lontane temporalmente e geograficamente, convivono fenomeni sonori con fenomeni infrasonori (quelli inudibili). E questi concetti traggono origine, appunto, dalla tripartizione della musica di Boezio. Alla cosiddetta «musica instrumentalis», infatti, corrispondente al modo moderno di concepire le sette note, Boezio nella sua teoria, vi affiancava la musica “mondana” in riferimento ai cicli ambientali e la musica «umana», il risultato cioè della convivenza delle varie forze intellettuali, psichiche e fisiche nell’essere umano. Poi, i musicologi più recenti, non condividono la tripartizione boeziana, negandole ogni valore…e questo fino a qualche tempo fa, quando ricerche compiute in vari campi, hanno accertato la validità dei fondamenti della musica «mondana» ed «umana», soprattutto in relazione ad un nuovo modo di concepire i rapporti ambientali. E su questi temi si soffermerà appunto. Albert Mayr al “Quarto Santa Giusta” nell’incontro organizzato proprio per analizzare le caratteristiche della musica inudibile…lncontro, dall’emblematico sottotitolo “annotazioni per una ecologia del tempo”.