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LA PROPRIETÀ IMMOBILIARE ED I MODULI ABITATIVI A BENEVENTO DAL TARDO MEDIOEVO ALL’OTTOCENTO Conferenza di Franco Bove

5 Novembre 1987

L’ Arco di Traiano – Benevento 

Fu eretto nel 114 per celebrare il prolungamento della Via Appia da Benevento a Brindisi. Sul fronte rivolto alla città sono narrate in rilievo scene di buongoverno del princeps e opere di pace, sul fronte esterno, invece, sono raffigurate scene militari relative alla politica imperiale delle province. L’arco interno del fornice è ornato dai sacrifici compiuti da Traiano per l’apertura della via e per l’assegnazione di derrate alimentari alle città italiche. L’appellativo Port’Aurea con cui questo passaggio era noto in antichità, si conserva oggi nella vicina ex chiesa di S. Ilario a Porta Aurea.

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IDEA E STORIA DELLA CITTÀ Seminario di storia della città presentato dallo storico Raffaele Colapietra

8 Ottobre / 7 Dicembre 1987

Le conversazioni che si sono svolte al “Quarto di Santa Giusta” fra il dicembre 1986 e l’aprile 1987 sulla storia della forma urbana dell’Aquila dal medioevo al Settecento hanno avuto un presupposto ed un obiettivo entrambi molto concreti e precisi. Il presupposto era sull’esistenza del “ritorno alle radici” che manifestava la società cittadina dopo il fallimento squallido, eufemisticamente parlando, di ciò che negli anni settanta era stato propagandato come cultura tout court, buona a tutti gli usi, e che si rivelava ora come un mucchio di cenere, quando non come un’operazione propagandata ed indotta di bassa politica, coperchio per le più svariate pentole e bandiera per diversi contrabbandi. Ma il pericolo che questo “ritorno” non interpretato né guidato in alcun modo, anzi abbandonato a sé stesso da un municipalismo compiacente, in attesa di rifarsi un’assai improbabile dignità, potesse sfociare nel qualunquismo e nella demagogia, era altrettanto evidente, ed andava anzi già realizzandosi in forme vistose. Gli aquilani avevano ben compreso, sia pure confusamente, che soltanto guardando in sé stessi, nel proprio passato, interrogando la loro città, semplicemente volgendosi intorno, ma con occhio critico ed i piedi ben piantati nella realtà, il discorso culturale poteva riprendere in qualche modo, sia pure partendo pressoché da zero. Null’altro che zero era infatti la politica culturale cittadina in quanto conoscenza dell’ambiente ed interpretazione del patrimonio storico, i cosiddetti restauri alla piazza ed alla Rivera che erano in realtà rifacimenti ed “invenzioni” destituiti di qualsiasi spessore civile, quando non anche di qualità tecnica e professionale, S.Agostino violentato e strozzato in quella che era stata la sua geniale novità settecentesca, nessun progetto neppure “utopistico” per S.Domenico, Collemaggio abbandonata al cerone, ai riflettori ed alle cartoline illustrate della Perdonanza, piazza S.Giusta sempre nell’occhio del ciclone dellla più rozza speculazione privata, l’antica porta Barete riscoperta casualmente e consapevolmente distrutta un’altra volta nell’indifferenza ottusa di chicchessia, prima che dichiarassero fuori i mandati di comparizione per il supermercato, S.Maria Paganica rivolta sempre più ad un parcheggio impazzito, e così via. Il progetto di scendere nelle viscere della piazza a ripetere artificialmente, forse sotto la direzione del professor Zichichi, il terremoto del 1703, e che vedeva il sindaco dell’Aquila eroicamente solo come Antonuccio Camponeschi davanti alle masnade braccesche, o l’altro progetto di trivellare la città, sempre allo scopo di farne conoscere meglio gli abissi, dal momento che in superficie tutto era ormai conosciuto, catalogato e salvaguardato nel migliore dei modi, tutto ciò dimostrava ad usura che il punto di non ritorno era ormai in vista, che l’irreversibilità del traguardo cittadino fino ai limiti dello sforzo era ormai questione di mesi. L’unanimità sulla trivellazione dell’Aquila come risultato forsennatamente plebiscitario dell’effetto Perdonanza sanzionava nel modo più eloquente il suicidio della classe dirigente e l’abbandono della città al suo destino.  A questo punto sono venuti fuori i cittadini, nel loro disorientamento, che era però anche curiosità ed interesse: ad una circostanza occasionale ma pur significativa, l’approssimazione dilettantesca con cui si è andati incontro ad un grosso appuntamento culturale, civile e last but not least urbanistico come il centenario di Margherita d’Austria, ha fatto toccare con mano la necessità e l’urgenza di parlare, se non altro, di dire che il re era nudo, e che occorreva approntargli se non altro un cencio di vestito. Questo è stato l’obiettivo primario delle conversazioni, far conoscere, e farlo dall’interno, della realtà quotidiana alla portata di tutti, senza la sovrapposizione di schemi, guardando a Coppito prima che a Francoforte, con la modestia che costruisce e non con l’arroganza che vaneggia. Chi ha seguito le conversazioni ha oggi probabilmente un’idea meno imprecisa di che cosa all’Aquila c’è, ed è suscettibile di studio, di sviluppo, di utilizzazione, ai più svariati livelli, e di quel che non c’è, che è impossibile che ci sia e che non importa che non ci sia, perché quello che c’è è d’avanzo. Dagli inurbamenti e dalle città nuove di metà Duecento agli architetti militari e sacri fiamminghi e borgognoni a contatto con le maestranze locali, dall’incontro-scontro fra Celestino V e Bonifacio VIII visto non tanto in chiave populistica da “avventura di povero cristiano” quanto come espressione della crisi dell’idea universale dantesca della Chiesa e dell’Impero al dare ed all’avere con Firenze e la Toscana, il guelfismo, la lingua di Buccio, e così via dicendo, dal teatro sacro dei Domenicani alla “filosofia” civile dell’Osservanza francescana, dalla dogana di Puglia vista anche qui senza reazionari rapimenti e palpiti pastorali al rapporto tra città e campagna nel Cinquecento meridionale, dall’erudizione antiquaria provinciale del tardo Rinascimento alla componente gesuitica ed a quella oratoriana della Riforma cattolica, dalla musica dei tempi di Margherita all’architettura dei Gesuiti ed al loro teatro, dalla città barocca con i suoi “modernamenti” non soltanto di gusto e di stile alla città di provincia del Settecento con la sua variegata e composita società, tutto ciò è emerso con sufficiente chiarezza e logica, e si è proposto spontaneamente ad approfondimenti di per sé stessi in grado, se opportunamente coordinati e programmati, di fornire una piattaforma di base per una cultura autenticamente cittadina. Basti pensare, in termini individualistici, dopo Buccio, a quali possibilità di aggregazioni e di paralleli offrano nei successivi secoli i cronisti del Quattrocento, Bernardino Cirillo, Francesco Bedeschini, Donato Rocco Cicchi e la “scuola” di Pescocostanzo, per rendersi conto di quanto uno stimolo periferico e provinciale possa allargarsi a risonanze meridionali e più di una volta nazionali. E non si parla degli aspetti strettamente urbanistici, lo spontaneismo e la razionalizzazione nel processo formativo dei quartieri, la loro rispettiva stratificazione sociale, i rapporti nel suburbio, la “laicità” o la forza compattatrice del momento religioso ed ecclesiastico, fino a grandi temi come il castello in quanto modello dell’architettura imperiale spagnola che giustifica coinvolgimenti consapevolmente internazionali. Rientra negli intenti del “Quarto di Santa Giusta” da un lato promuovere ed intensificare il legame civile che si è venuto a strutturare fra l’istituzione ed il pubblico, in modo da definirlo come interlocutore ineludibile in un discorso culturale che rifiuti le soluzioni di vertice e di scuola, dall’altro mantenere aperta la tematica aquilana con uno slargamento per il momento abruzzese, che consenta approcci e verifiche con le realtà urbane ed ambientali a nostro più stretto contatto, e non soltanto sul piano della storia. Conoscere il passato per operare sul presente e preparare il futuro è uno slogan vecchio ed ormai screditato, ripetere il quale in forma programmatica sarebbe di cattivo gusto. Si tratta di passare dal programma ai fatti: e fin qui ci si è potuti misurare con una serie di fatti. La parola ora torna ai cittadini purché essi non rimangano acquisizioni fine a sé stesse ma forniscano i capisaldi per un programma che essi stessi, i cittadini, hanno la possibilità, e perciò il dovere, di elaborare.

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LA FOTOGRAFIA DI JACQUES CLOAREC Mostra fotografica

19 Agosto – 19 Settembre 1987

Sylvano Bussotti regista, costumista, scenografo. Mostra di fotografia

Page 76 du Journal de SYLVANO BUSSOTTI à Zagarolo le 24 Avril 1986.

 

Il privilegio dell’amicizia e l’ammaestramento delle frequentazioni pluriennali apre alcune porte segrete, se possiamo utilizzare un’immagine cara a Cocteau, mantenendo chiusi ostinatamente gli accessi apparenti, passaggi falsi e trompe l’oeil; l’inganno, di regola nella fotografia, in amicizia resta incompatibile; così, a rigor di termini, non sapremmo mantenerci a lungo in fraterna e totale amicizia con un fotografo. Prima o poi, divenuto padrone delle sue macchine, consapevole dei propri obbiettivi, lascerà andare il dito sopra uno scatto infinitesimale dando corpo all’immagine “mostruosa” capace di sconvolgere. Criminale innocente il fotografo consegna impassibile la specie più pericolosa fra le razze di memoria, e ti blocca dinanzi allo specchio inafferrabile di una tetra condanna, colto sul fatto, inappellabile trastullo di una coscienza che la celluloide avvolge nelle spire soffocanti del serpente di Adamo. Simboli facili, a ben vedere, ma tangibili e affatto incontestabili.

Ho incontrato Cloarec nel 1972 e da quattordici anni, il tempo per una piena pubertà, ne vado spiando le mosse con precauzione, lieto se riesco a provocarne occasioni e opportunità galeotte su alcuni palcoscenici oppure all’ombra d’alberi in fiore. Parlo del fotografo ben inteso l’amicizia si concede ancor più raramente il gioco del sorprendere o i suoni origliati che allora, quando ci conoscemmo, andava fiero della propria abilità nel fare il burro, le marmellate e la salsa di pomodoro nella proprietà di campagna dove abita, e non mancava di riservare agli artisti svariati sarcasmi. Da me pienamente condivisi, del resto, la condizione d’artista, patita più che abbracciata, richiamandomi perennemente ad un numero incalcolabile di noie.

Ma il passaggio dal burro alla fotografia è in parte avvenuto sotto i miei occhi, senza colpo ferire, almeno apparentemente (e probabile che il burro di Cloarec sia tutt’ora squisito e che fin dal primo scatto che le sue dita imberbi davano alla classica scatoletta camera l’immagine spuntasse fuori originale) vendicando i poveri artisti e facendo dell’occhio del nostro fotografo una forma d’arte della coscienza. In teatro s’è mosso sempre con l’aria di chi conosca l’uscita dal fatale labirinto. Per l’amicizia questo potrà sembrare ancora un gioco di parole allusive al fatto che il colle dov’è situata la sua casa è appunto chiamato Labirinto; alla coscienza fotografica, viceversa il fatto apparirà normale. Quinte, fondali e parapetti o costruzioni e trabocchetti, percorsi da modelli alati nei costumi più folk, segnano una strada che va dritto alla fotografia senza deviazioni; la finzione è reale, il gioco vinto, le insidie debellate. L’immagine se ne esce con la perfezione paradossalmente a teatro naturale di un grazioso fantasma. Scendono nubi ad incarnarsi e volano piumaggi preziosi direttamente dalle carni di un ballerino al quadro sontuoso e vivente della rappresentazione irripetibile. Quasi che farraginosi melodrammi venissero allestiti appositamente per consentire agli obbiettivi di Cloarec di compiere il rito, ne ritroviamo documenti emozionati nei suoi scatti, pronti a giurare di non saperne niente.

Dire infine come il segreto principale risieda probabilmente nell’idea di “dar corpo” non è del tutto inutile. Si ammirano appunto alcuni corpi sullo smalto brillante di alcune foto e la lettura di questi corpi appare artistica ancor prima che un concetto di fotografia sia pronto ad illustrarli. Ma è raro, da pane d’un artista, sentire ammettere il corpo stesso come modello ancestrale per tutte le arti. Ci voleva l’obbiettivo della fotografia, pittura divenuta scienza esatta e la testarda pazienza d’un campagnolo. Scherzo.

Vigente ancora agli orli del millennio c’è un sentimento che cresce, selvatica erba, dal fecondo apparire degli umani; siano essi travestiti a teatro o svestiti e legati al palo d’un rogo silvestre. Cloarec è questo sentimento che possiede, dalla diteggiatura studiata lungamente su tastiere improbabili, in grado d’intonare immagini così musicali da sbugiardare, delle belle arti, i riti separati e tabù. Lo vedo da quando lo guardo e vedo e guardo quel che l’amico ha visto.

Sarebbe, la fotografia, l’arte dalle tecniche straordinarie elaborate specialmente per l’amicizia?