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FRAMMENTI ALL’ ITALIA Lezione di Sylvano Bussotti

08 Giugno 1992

Una lezione di S. Bussotti con Sandra Fuciarelli coreografo del Balletto dallo stesso titolo (vedi programma completo dell’intera manifestazione).

 

Noto nel mondo come uno dei massimi musicisti viventi, Sylvano Bussotti, negli ultimi anni, lascia intravedere aspetti sempre più vasti della sua opera In ARTE. Scrive di lui Alain Danielou: “Co­me molti grandi artisti del passato, Sylvano Bussotti si esprime con eguale sicurezza in tutte le arti e vi è una continuità fra lo stile della sua musica, l’eleganza della scrittura e la sensibilità della sua pittura e dei suoi disegni. Padrone della tecnica, utilizza i con­cetti di un’epoca non esprimendo che se stesso: moderno e classi­co nel medesimo tempo. Egli percorre con abilità i modi artistici attuali, penetrando il segreto della bellezza o mascherandolo in strutture elaborate, creando di sana pianta, infine, personaggi e scenari delle sue superbe regie teatrali.”
Bussotti è stato per un certo periodo insegnante a L’Aquila, nella prodigiosa esperienza didattica cui seppe dar vita Piero Sadun. Il Centro Multimediale “Quarto di Santa Giusta” fiorisce anche nel seme di quell’insegnamento. Già una mostra di fotografie teatrali, dedicata agli spettacoli di Sylvano Bussotti, scattate con sensibi­lità acutissima da Jaques Cloarec, illustrava in questo spazio fa­stose invenzioni bussottiane. Oggi si vuole mettere a fuoco, con questa nuova mostra, la stupefacente ricchezza figurativa delle sue immagini, ripercorrendo in maniera quasi antologica un per­corso che va dalla fine degli anni quaranta sino alle recentissime incisioni eseguite a L’Aquila. I confini fra partitura musicale, classico dipinto a olio, disegno, oppure poema e testo letterario manoscritto, sono stati da tempo infranti da Bussotti, superando anche il sogno teatrale che Monteverdi nell’antichità, Wagner al­l’affacciarsi del mondo modemo ed altri rari musicisti perseguiro­no appassionatamente; sogno che vede le arti riunite in una sintesi di perfetta armonia, mentre sembra incarnarsi nell’opera, che di­remmo oggigiorno unica, di Sylvano Bussotti. Conclude Danie­lou: “Per apprezzare in pieno queste opere occorre comprendere com’esse siano un riflesso dell’ispirazione musicale del loro auto­re e della sua visione poetica”.

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LE BELLE ARTI DI SYLVANO BUSSOTTI Opere in musica e dipinte recentemente o nel tempo di Sylvano Bussotti

07 Maggio - 14 Giugno 1992

Le arti belle di Sylvano Bussotti, opere in musica e dipinte recentemente o nel tempo

 

con il contributo del Comune dell’Aquila e della Regione Abruzzo.
Con la collaborazione dell’ A.T.A.M., del Teatro stabile dell’Aquila e della casa Ricordi.
Presentazione della cartella codici d’arti Belle stampata da Crescenzi Allendorf Editori. Conferenza del critico d’arte Laura Cherubini, del compositore Mauro Castellano, e dell’autore Sylvano Bussotti.
Ore 18.00 Centro Multimediale – Inaugurazione della mostra.
Ore 21.00 concerto in galleria con M. Castellano (piano), L. Paoloni (violino), e S. Bussotti.

 

Nella ex sede dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila Creazioni musicali, lettura di testi originali, installazioni drammaturgiche, proiezione di video e films nell’opera integrale d’immagine dell’artista, occasionata dal Teatro alla Scala di Milano, dalla Biennale di Venezia, dal D.A.A.D. di Berlino e dalla collezione privata dell’autore.

 

musica e gesto – testo di Walter Tortoreto

Sylvano Bussotti, che ha simpatie e antipatie totali come si conviene a un grande artista, ha sempre dimostrato una sua singolare pre¬dilezione per la città dell’Aquila. Alla Società Aquilana dei Concerti di Nino Carloni ha affidato in passato la prima esecuzione di alcune sue splendide pagine. All’Ensemble Barattelli, creata da Fabrizio Pezzopane e Orazio Tuccella, ha consegnato lavori da eseguire in prima e con tale complesso Bussotti ha voluto anche lavorare, come si trattasse di un laboratorio vivente, in Italia e all’estero. Anche nel nome di un suo lavoro, “Concerto all’Aquila”, rinnova questa devozione fatta di teneri ricordi per il periodo passato a insegnare nell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila (dove ha lasciato allievi entusiastici e oggi vivissimamente grati) e di speranze affidate al futuro. All’ impegno e alla presenza di Bussotti all’Aquila si deve uno dei momenti più interessanti e riusciti delle manifestazioni collegate alla Perdonanza 1987. Per Sylvano è venuta a recitare all’Aquila Piera Degli Esposti che spiccò il suo grande volo proprio con il Teatro Stabile dell’Aquila. Per Sylvano, Piera è tornata a esibirsi nelle Chansons de Bilitis e sull’ avvenimento la stampa si è pronunciata con parole di alto elogio. Proprio in margine a questo episodio aquilano di Sylvano Bussotti, mi è sembrato opportuno tracciare del musicista sommo un profilo critico lontano dagli schemi usuali e, invece, attento a cogliere alcune costanti che sono, come accade con ciò che riguarda S. Bussotti, un intreccio inscindibile di elementi psicologici, culturali, tecnici, biologici o anche aerei (volatili) e misteriosi.

 

Come qualche maestro del passato, tra i più grandi che la storia musicale d’Italia abbia avuto, Sylvano Bussotti ama insegnare. Viene in mente, a questo proposito, il caso dei Gabrieli, Andrea e Giovanni, compositori veneziani di formazione internazionale ai quali Bussotti può essere paragonato anche per tanti altri versi: interesse esplicito per la ricerca e la sperimentazione, ma una sperimentazione sempre vissuta nel vivo dell’attività creativa; l’attenzione al rapporto tra il suono e lo spazio; uno stile spettacolare e coloristico che costruisce un insieme sontuoso, fastoso con la più meticolosa cura dei particolari. Abituati a considerare, della musica, esclusivamente l’aspetto temporale, ne censuriamo così una dimensione essenziale. Ogni opera musicale è senza dubbio una progressione lineare nel tempo; la musica, cioè, percorre il tempo e lo misura secondo un ritmo interiore (che è quello dell’artista). Ma c’è un altro aspetto, quello spaziale, che non è meno evidente, anche se meno considerato, nella struttura complessiva dell’evento sonoro. La musica nasce dal silenzio e dal raccoglimento come un gesto carico di mistero. La musica percorre e segna lo spazio facendolo vibrare con lo stesso ritmo che occupa il tempo. La struttura del suono è fragilissima e straordinariamente fugace. L’evento sonoro, infatti, dura non più di un attimo; la sua esistenza è destinata a disperdersi immediatamente dopo quel suo attimo di vita. Ma quell’attimo basta a definire uno spazio, e talvolta anche un destino. La musica è uno dei doni piu alti che l’uomo abbia fatto a se stesso per esprimere, senza mediazioni, il suo cuore e il suo spirito. Ma esiste anche una musica, nell’universo, che l’uomo non crea e che scopre indagando sullo spazio e imparando a conoscere ciò che è intorno a lui. Secondo la maggior parte delle credenze, l’inizio del mondo è stato un evento sonoro. Anche la parola della Bibbia fu all’inizio un suono. E questo conserva in sè qualcosa di eterno, qualcosa che supera i confini del tempo storicamente definito, e qualcosa d’indefinito poichè rompe i confini del nostro spazio geografico. Nella musica di Bussotti sono presenti queste intuizioni perchè egli ha dedicato tanta parte delle sue riflessioni al gesto. E la musica è gesto non soltanto nel senso brutale che ci si deve muovere per produrre un suono vocale o strumentale, ma anche nel senso piu elevato che senza gesto, senza occupazione dello spazio, non ci sarebbe musica. E il gesto esterno, il gesto per così dire meccanico è soltanto l’apparenza, la buccia di una sostanza alla quale di continuo l’arte di Bussotti tende e rinvia. Attraverso certi movimenti della mano (pensiamo un attimo al soave verso dantesco “coi dossi della man facendo insegna”), o in rapidi gesti del capo, o in attitudini del corpo, sempre Bussotti esprime un moto dell’animo, un pensiero segreto, un sentimento oppure un desiderio che può essere anche presentimento al quale l’atteggiamento dell’artista dà nobile efficacia ed espressività. Mi pare che Leon Battista Alberti abbia usato l’espressione piu adatta a dipingere le intenzioni di Bussotti: “udire il gesto”. Non è questo il momento piu idoneo a indagare sulle gestualità (al plurale) di Bussotti musicista (ben piu agevole è farlo sul Bussotti regista e interprete della sua scrittura musicale disegnata perchè sia evidente che per lui si tratta di un’attività creativa e artistica; e in quanto artistica, tale attività è frutto di un artigianato che è insieme lavoro, tecnica ed emozione. Anche nella finzione, come nella danza o sulla scena operistica, quando si rappresenta o esegue la musica di Bussotti (perchè egli è sempre ed esclusivamente musicista, anche quando sembra occupato in attività non direttamente musicali), vediamo emergere con evidenza corposa due elementi: la sovversione e la scoperta. Bussotti è, come tutti gli artisti (ricordiamo le tesi di Marx su Balzac?), un progressista; il suo sguardo va al futuro e perciò egli sa che la lingua dell’arte ama soprattutto la trasgressione. La ripetizione delle regole produce esempi grammaticali non opere d’arte. Nella gestualità della musica di Bussotti, le forme ordinarie del linguaggio, e quindi del potere, sono chiarite fino a diventare trasparenti. Gli elementi rimossi dall’ordinata coscienza collettiva tornano a galla e s’impongono come s’impone l’inconscio malgrado i tabù, proprio con lo stesso meccanismo con cui viene pensato ciò che a una società si vieta di pensare. Tra l’altro, in una società in cui si parla tanto e il bla bla imperversa dappertutto, il gesto ha l’efficacia dell’inedito. La scoperta d’altro canto è di tipo rousseauiano, ossia è il bisogno di tornare alla semplicità e alla natura. Viene in mente Althusser: “sebbene ciò possa apparire paradossale, possiamo ipotizzare che, nella storia della cultura umana, la nostra epoca rischia di sembrare un giomo segnata dalla prova piu drammatica e faticosa che vi sia: la scoperta e l’apprendimento dei gesti piu semplici, vedere, ascoltare parlare, leggere, quei gesti che pongono gli uomini in rapporto con le loro opere”. E’ quindi una scoperta e un restauro (v. Althusser e Balibar, Lire le Capital, Paris 1965). Il gesto è l’aspetto sociale e socializzante della musica. A differenza dell’ascolto solitario del disco (oppure della visione, che è sempre privata, di un film musicale, per esempio La Traviata di Zeffirelli o la Carmen di Rosi), il concerto e il teatro danno il gusto dell’evento sociale. Andare al concerto significa vedersi sentire la musica assieme agli altri, partecipare a un rito che ha del sacro, respirare l’aria che vibra satura di misteriosi e festosi richiami, e insieme significa godere di un processo di comunicazione che avviene per il solo fatto che si sta li insieme. Mi pare che nella produzione di Bussotti questo elemento sia essenziale perchè egli cerca di ricreare, suscitando emozioni inedite, quel processo smarrito di reciproca comunicazione tra palco e platea e, nella platea, tra tutti i presenti. E’ questo, uno dei valori semantici più vistosi della musica di Bussotti e, in genere, della sua poliedrica attività. In ciò, credo, l’artista toscano ha, oltre all’esempio del grandi maestri ai quali ama riferirsi nelle sue conversazioni o negli scritti, un maestro sommo, la natura che è sempre stata la stessa. E forse proprio per questo egli privilegia l’aspetto gestuale, perchè si tratta di un aspetto universale come è universale lo stesso linguaggio della musica, che non ha bisogno d’interpreti (ma questo porre il problema della polisemia della musica in termini un pò semplicistici non deve significare che non si tengano presenti le questioni legate alla comunicabili lo della musica). Qui si tocca un altro aspetto dell’attività di Bussotti che arricchisce in modo speciale la città dell’Aquila. Come accennavo in apertura, da sempre i migliori maestri hanno pensato all’attività didattica. Non c’e musicista del passato che non abbia avuto i suoi allievi preferiti e, in ogni modo, un’attività didattica più o meno intensa. L’Europa si è riempita di allievi di Frescobaldi, di Andrea e Giovanni Gabrieli, di Corelli, di Pasquini, di Porpora.
Oggi i maestri si defilano. A parte qualche caso isolato, i compositori di bel nome e i grandi virtuosi non sembrano intenzionati a formare le nuove schiere di musicisti. In genere nel Novecento, e in particolare dopo l’ultima guerra (ove si escluda il fatto clamoroso di Darmstadt, clamoroso anche per la sua stessa esistenza), l’aspetto didattico si è illanguidito nel catalogo, diventato amplissimo, delle attività dei maggiori musicisti, compositori in testo. Eppure proprio le caratteristiche della nuova musica esigerebbero un impegno maggiore sul versante didattico. Non che si debba, o si possa, insegnare la creatività; ma certamente il problema di una nuova didattica e uno dei più seri, oggi, nel mondo dell’organizzazione musicale, giacchè è posto dall’attività stessa dei musicisti che scelgono pratiche più o meno sperimentali alle quali i Conservatori rimangono tenacemente chiusi o ostili, benchè non manchino casi di felice eccezione. Al contrario, la cura di Bussotti verso i giovani (lo ricordiamo all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila; lo abbiamo visto con commozione nel lavoro con l’Ensemble Barattelli, ne conosciamo l’intenso impegno a Genazzano e a Fiesole) è amorevole e ammirevole, ed è la trepida premura del vero artista per il futuro di un’arte di natura così fugace ma pure cosi resistente e dura e perfino prepotente, da poter cambiare destini umani… Tutto questo è riflessione suggerita dagli splendidi spettacoli che Sylvano Bussotti ha preparato negli ultimi tempi per L’Aquila, una città oggi sospesa tra nostalgia e bisogno, avventura e paura. Avendo scritto altrove su “L’orecchio di Dioniso”, aggiungerò che ‘Le Chansons de Bilitis” mi hanno affascinato perchè nella realizzazione scenica studiata da Bussotti e da Rocco c’era un intreccio indissolubile di sonorità datate ma anche sospese (impressione di timbri antichi con l’imbarazzo di esserlo), c’era il sentimento di un continente recuperato (una Grecia tradotta dall’egiziano), c’era una psicologia finemente modellata benchè suggerita per tramiti sottili e indizi o lievi evocazioni e c’era il teatro creato con una parsimonia di mezzi che m’induceva a pensare alle prime rappresentazioni medievali organizzate da improbabili cluniacensi. Una bella lezione di stile e di moralità. Ma soprattutto c’era l’emozione che coglie senza scampo, quando si assiste agli spettacoli di Sylvano Bussotti.

Silvano Bussotti
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STRATI – 5 ARTISTI ROMANI Mostra collettiva di Giancarlo Piccirilli, Stefania Fabrizi, Pierluigi Fiore, Laura Barbarini, Guido Giobbi

14 Novembre - 14 Dicembre 1991

Giancarlo Piccirilli mette all’ordine del giorno la rivisitazione “fisica e lustrale” del mondo, della sua natura ormai compromessa e in ritirata. Piccirilli si avvale con singolarità del disegno architettonico e del design, per quelli che assai propriamente chiama “lavori”. C’è in lui, nel rapporto costante di reinvenzione della materia, la stessa ansia d’uso dell’artigiano. Lo confermano i materiali, pietra e legno, della sua pittura che sconfina, in ogni rappresentazione, nella scultura. Più che la dimensione del mito, la sua intenzione è la riproduzione, la “reversibilità” dell’ universo stesso. Un tentativo continuo di rielaborare la superficie, la pelle dei materiali naturali che adopera, sproporzionando su scale interiori gli scenari dell’ origine, della radice del mondo. La patina finta, su scala uno a uno, della pietra e delle venature del legno ricorda l’operazione culturale del rococò: quel falso manierato e volutamente  abbondante che dà conto dell’impraticabilità del reale così com’è. E che si presenta per sostituirlo. Un’astuzia creativa che si misura anche con la necessità di ricostruire le venature, le pieghe, la “fessura” dell’universo, ponendo ancora una volta di fronte ai propri occhi l’idea di una “soglia” da varcare, da penetrare per scoprire. Il risultato finale che Piccirilli conquista è crudele e lucidissimo: la terra, ancorché desolata, è ormai terra di nessuno – l’umano e il suo sudore appaiono azzerati – e i tempi della vita possono ancora essere, se ricostruiti dall’amore della ricerca febbrile, solo i tempi del legno e della pietra. All’opposto di questa visione da panta rei di Piccirilli stanno invece le pitture di Stefania Fabrizi, ossessivamente fondate sulla riproposizione dei corpi come rielaborazione della figura antica. Quel che interessa alla sua ricerca è proprio la commistione tra natura e presenza umana, come se l’ombra dell’ essere vivente fosse l’unico limite possibile per definire lo spazio; a partire dai contorni dell’ombra, dai sedimenti di movimento rimasti nella rifrazione dei colori. Il corpo umano diventa dunque il centro della luce. Assai particolare è il fatto che per il suo lavoro la pittrice senta il bisogno di assumere su di sé il carico di un nuovo racconto del mondo, di scoprire e inventare una sua mitologia di eventi che sperimentino la ricomparsa della luce da assorbire e riprodurre. E’ il caso dei grandi pannelli-pellicola. Separatamente, essi compongono un’opera davvero affascinante, che rivisita un volto pompeiano riprodotto nell’incanto della sua serenità: sono i pannelli dei dieci angeli che soffiano ossessivamente sui rotoli di carta della storia ancora non srotolata. Un’opera unica in quanto a nuova figurazione simbolica. O quello delle “alte maree”, dove corpi volutamente non completati subiscono l’accadere della luce, mentre l’acqua ormai li sovrasta, a creare, invece che corpi offesi nel terrore degli elementi, soltanto puri “campi di luce”.  E poi, invece del topos delle bagnanti, modello storico della pittura moderna, ecco “I bagnanti” che, nella singolare trama narrativa dell’autrice, propongono l’acqua in cui sono immersi a livello dello spettatore che guarda. Immersi, si direbbe, piuttosto che nei rimandi moderni o contemporanei, nel Rinascimento, nella luce “riflettente” blu-cobalto delle volte rinascimentali. Non tragga in inganno, però, l’elemento epico, o la passionalità dei volti raffigurati, diversamente intensi. Ogni intervento serve alla Fabrizi per il suo laboratorio di “macchie”; le sue figure, infatti, sono in funzione della macchia, del suo rapporto con la luce centrale emanata da un colore sotteso, nascosto “Dietro la macchia” (è il titolo di una sua tela significativa di creta e gessetti). In Pierluigi Fiore c’è la stessa ricerca del centro (equilibrio, non luce), lo stesso rapporto esclusivo con l’acqua, lo stesso riferimento al Rinascimento, ma anche al Barocco e alla sua ricchezza di linguaggi. Ma in una elaborazione condotta con mezzi e finalità poetiche contrapposte al “narrativo” di Stefania Fabrizi. Fiore presenta carte, srotola  pergamene e manifesti, apre quaderni, nell’intento di comunicare “frasi” che è proprio del poeta. Le sue scritture vivono per inchiostri e colori di terra, in un rapporto vitale con la liquidità di cui sono composti. Il tentativo, pienamente riuscito, è quello della raffigurazione di un nuovo alfabeto storico, capace insieme di decodificare le componenti simboliche del mondo arcaico – le forze e le forme che insieme hanno contribuito a costruire il capitello ionico – fino a ingegnare nuovi orologi personali, clessidre, strumenti sensibili che possano misurare tutto il peso che grava sul mondo. Un lavoro che lo stesso Fiore ha definito in modo appropriato: “Il dono e il sacrificio”. E’ la ricerca di un centro del mondo scelto come territorio di fuga, ma anche di ritorno. Una pittura che traccia graffi, microsolchi come segnali del passaggio dell’umano. Una pittura-scrittura che non finisce nell’atto della sua resa sulla carta, ma continua attraverso il grado di assorbimento dell’umidità – inchiostri e terre – sul foglio, perseguendo il suo gioco fino all’essenza, che diventa nient’altro  che liquido. Tornano gli angeli in Laura Barbarini, ma invece che figure simboliche realizzate e compiute, ecco puri ammassi di luce nella rigorosa rappresentazione del loro movimento. E’ una pittura alta che rimette in gioco la stessa esistenza dei colori. La nebulosa esistenza dell’angelo è il mistero che permette all’artista di riproporre la nebulosa che ha portato alla formazionepercezione dei colori. Se umani e cose appaiono accomunati nel loro azzeramento, soltanto in evoluzione può essere restituito il movimento di vortici che arriva a comporsi in materia e vive per poco tempo, miracolosamente, nel volo e nella luce dell’innalzamento dell’angelo, nella disperazione della sua precipitazione, come Lucifero. Un movimento, spiegano le sue tele di grandi dimensioni come i suoi piccoli cartoni, che è anche movimento interiore fino all’essenziale. Sono gli angeli che “nascono” il colore. Il colore non esiste, non è mai esistito. E’ la figura fantasmatica dell’ angelo – specchio della volontà di Barbarini – che nel magma della sua nascita lo crea. E vive dall’impasto dei colori fino alla realtà materica, monocromatica, del rosso fuoco e del verde smeraldo acceso. Poi l’angelo, massa di colore, prende forma, si concretizza ed esce dalla materia pittorica e dal gesto di tracciare il segno. E’ l’evento voluto dall’autrice: un consistere e sparire, un materializzarsi e dissolversi allo stesso tempo. Di questi angeli si può dire: “Nascono o scompaiono?”, lasciando in sospeso la possibilità che le figure escano dal tempo “all’origine o alla fine”. L’emozionante ciclo dell’angelo si avvale di una tecnica originale fatta, si potrebbe dire, soltanto di materia. Per Laura Barbarini sembra infatti fondamentale ridurre al massimo l’emozione della ricerca mentre gli angeli prendono forma: i suoi ultimi lavori su carta sono non a caso tracciati in cemento “per cancellare la passione del colore e distanziarsi” e per fondare. Fino a diventare analisi fredda, “appunti” sulla macchia che era stata un angelo – e che all’improvviso torna a dissolversi nello spazio. Ed è lo spazio il protagonista della pittura di Guido Giobbi, lo spazio fisico, astronomico, e lo spazio matematico- fantastico contenuto tra vuoto e angoscia interiori. La creazione dei mondi e dei pianeti svela, dall’altra parte, la sfera dell’ occhio che scruta il buio e avvista i corpi celesti. L’ansia del siderale a malapena nasconde il disastro planetari della coscienza. La nuova sfera armillare di Giobbi parte proprio dall’avvistamento della  perdita del centro e della decadenza della ragione. Vale dunque costruire, con gesso acrilico e inchiostro e su grandi pannelli di tela, una nuova fisica astronomica che materializzi le parti in cui si evolve il mondo di dentro, tra rotazioni, lame di luce, lune bisecate. Centrale, per la comprensione del surrealismo cosmico di Giobbi, è il topos della luna bisecata, con la sua luce sempre parziale. L’autore sta nella parte a metà, tra svelamento e nascondimento. I colori, anche se delicati e stravolti nel grigio intenso e nel dolcissimo rosa, retaggio d’un fuoco appena spento, sono assoluti, e riempiono lo spazio siderale come uniche presenze dell’universo.  Sono colori che contengono la parzialità della luce e delle forme. E ancora gesso, acrilico, inchiostro, in un lavoro continuo di asportazione e sottrazione, con vitalismo, addirittura con graffiti da caverna se necessario, attingendo al blu, il liquido dell’universo. Sono dunque cinque giovani pittori diversi, ma ognuno è rifratto nell’altro per un gioco non voluto di sconosciuti e invisibili specchi. Come lava accesa e ferita aperta.

Tommaso Di Francesco

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UNA REINVENZIONE DEL MONDO Mostra personale di Maria Cristina Crespo

7 - 15 Giugno 1991

Maria Cristina Crespo è quello che suoI dirsi artisticamente un “temperamento” con le sue impennate, con i suoi umori, con i suoi momenti di illuminazione intuitiva, tutto ciò costituisce il nocciolo dei suoi modi espressivi che, volendo, potremmo inquadrare nella sfera del dionisiaco. Il problema è quello di dare una base, un supporto tecnico al temperamento per far si che esso si esprima significativamente. Un temperamento iscritto nel perimetro del mestiere crea l’artista professionista: la poesia si fa con le parole che formano i versi, costruiti sempre secondo un ordine preciso per quanto liberi possano essere; ciò determina nella pagina scritta quella “petite musique” di cui parla Céline, quella piccola musica che pochi riescono ad ottenere. Naturalmente il professionista sa che il mestiere non va strangolato dal tecnicismo, sa che esso si modifica e si evolve continuamente in una metamorfosi incessante: questo era il segreto degli antichi, della loro grande arte. Recentemente molte parrucche accademiche di avanguardia e di retroguardia sono rimaste allibite davanti al Michelangelo della Sistina scoperto nella sua realtà coloristica dai restauri in corso; questi professori lo avevano forse relegato nel mondo del monocromo: era ovvio, era uno scultore! Magari avrebbero anche voluto che il suo chiaroscuro fosse tutto disegnato con un tratto a 45 gradi. Si erano semplicemente scordati che era Michelangelo, cioè un grande artista che, conoscendo a perfezione ogni regola, aveva la possibilità e la libertà di reinventarla di sana pianta. Non parliamo poi della sorte di un altro straordinario pittore creduto per secoli il paladino delle Accademie, Guido Reni. Ma Guido era uno che, con la scusa di dipingere santini faceva in pittura dello sperimentalismo puro: ma vaglielo a far capire ai nostri professori, hanno le meningi spesse come la pelle dei rinoceronti. Quando Cristina, diversi anni fa, venne a trovarmi nel mio studio, mi portò a far vedere certi suoi lavori; alcuni disegni e una testa modellata in cartapesta dipinta. Il temperamento, il talento erano evidenti, però come balbettati attraverso una forma piena di incongruenze, di contraddizioni. Erano ancora nell’ambito del dilettantismo: intelligente, sensibile, pieno di fermenti ma pur sempre dilettantismo. Dissi subito a Cristina, che mi era risultata immediatamente simpatica (nello stabilire un rapporto non posso prescindere dai miei umori) che non potevo insegnarle niente perché nel nostro mestiere non si insegna niente, ma si impara molto e che, se voleva venire nel mio studio, era padrona di farlo e forse, chissà, le avrei anche detto cose che altri non le avrebbero saputo dire e, se fosse stata d’accordo, le avrei anche fatto fare cose che le avrebbero dimostrato la sua precisa vocazione. Cristina ha disegnato per quattro lunghi anni nel mio studio, superando giorno dopo giorno prove durissime: ha disegnato e ridisegnato, cercando soprattutto di penetrare il mistero del disegno che rappresenta l’ossatura di ogni linguaggio plastico. Spesso ho volutamente provocato Cristina, a volte anche con una punta di “carognaggine”: questo l’ho fatto per tirarle fuori la verità, perché questo mestiere si basa sul gioco della verità: verità che significa assenza totale di vanità: strappa da te la vanità, ti dico strappala ammonisce il vecchio zio Ezra che, nel bene e nel male, se ne intendeva perché era della pasta degli Alighieri, dei Villon, dei Rimbaud. Ora Cristina disegna bene, anzi direi molto bene, sa soprattutto cosa è un disegno e cosa deve scaturire da un disegno; il suo estro è ora libero di estrinsecarsi come vuole, qualunque cosa inventerà (e Cristina ne inventa di tutti i colori) sarà sempre sostenuta da una cultura “posseduta” che può essere modificata, piegata appunto a quelle esigenze creative che nascono dalla sua intuizione. Ma parliamo ora dei suoi “pupazzi vestiti” che sono l’argomento di questa mostra. La definizione non tragga in inganno, queste sue sono straordinarie invenzioni plastiche dove la tridimensionalità della scultura si sposa al colore, alla composizione sapiente e dove il disegno  serpeggia vivo nei canali d’ombra dei panneggi, costruendo lo spazio; la sua personalità visionaria ormai si organizza spontaneamente con metodo direi teutonico, con una conseguenzialità che sembra uscita fuori dal secolo dei lumi. Gli stimoli più impensati, le fonti più nascoste trovano una loro ragione d’essere, un loro ordine preciso: Cristina raccoglie stracci bottoni bigiotterie da quattro soldi, pezzi di vecchie cornici dozzinali la carta stagnola dei cioccolatini; modella con il gesso teste inventate di Re e di Regine di sante e di prostitute poi fa scattare il tutto nella dimensione magica e precisa dell’analogia: in quei volti tatuati, in quegli straccetti di tarlatana azzurra messi al posto delle nuvole, in quei frammenti di cornici di accatto che fanno da stipiti a iscatolati teatrini più o meno sepolcrali, l’evocazione si fa tangibile e potente e le citazioni storiche religiose popolari, vive. Tutto è pretesto per innescare, come accade ai veri artisti, una re invenzione del mondo dove l’individualità dei personaggi e il carattere degli elementi compositivi, ora protervi ora attoniti ora convulsi, sono filtrati e ridati attraverso un tipo di immaginario che tutti li lega in una sorta di girotongo collettivo, in un fantasmagorico balletto surreale. Questa stralunata fiera delle vanità avanza a passo di danza: vi serpeggia un humor nero e dissacrante che associa lazzo e preghiera, sensualità e religiosità, il colore delle carni imbellettate delle cortigiane e i pallori mistici delle sante degli “svenimenti umbri” tutto il mondo che Cristina crea con le sue stupende cianfrusaglie viene percorso da un fremito di vita e nel contempo da un sussulto di morte, illuminazione di un attimo prima di riprecipitare nella opacità della loro oggettiva realtà. Così Cristina, da autentica artista moderna, percorre gli archi vasti del tempo e della storia, quella storia dell’arte da lei studiata con rigore scientifico diviene una sua particolare storia dell’arte. Va anche detto che in Cristina il gusto del kitsch è determinante: come un’ acrobata consumata avanza in equilibrio sul filo che fa da spartiacque tra il buon gusto e il cattivo gusto ma spesso anche questa è una prerogativa dei grandi artisti: infatti chi può dire dove inizia o finisce sublimandosi il kitsch di Rubens, di Bernini o di Verdi? però che grande pittura che grande scultura che grande musica! Forse si potrebbe parlare ancora a lungo di quello che Cristina va facendo o, potenzialmente, di quello che potrà fare ma ciò andrebbe a detrimento delle opere esposte in questa mostra; penso sia stato sufficiente aver messo sull’avviso chi avrà la fortuna di osservarle; di fatto queste opere parlano da sole, non hanno bisogno i commenti arzigogolati, parlano naturalmente a chi sa udire a chi sa vedere; i loro colori, i loro atteggiamenti, i loro bisbigli, le loro grida, le loro risate, i loro gemiti, le loro preghiere entrano di diritto a far parte di quell’umano miracolo, piccolo o grande, che si chiama poesia.

Angelo Canevari

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ELISABETTA CATAMO Mostra fotografica, presentazione di Gabriella Dalesio

15 Maggio - 15 Giugno 1991

La tavola imbandita indica il colore della notte: neri sono i piatti in cui sono disposte come un gioco di prestigio in una ritualità antica le magie di un tempo sospeso. La voracità di colui/colei che vorrebbe mangiare si rarefà nella sospensione dei gesti. Invisibili sono le forze che tengono le cose, gli oggetti, o i loro simulacri: frammenti reinventati e tenuti fermi da fili invisibili per un loro movimento possibile. Si può entrare nella stanza allestita dalla Catamo solo in punta di piedi. La leggerezza sospende i movimenti, le relazioni interne delle cose si ribaltano in un ordine infinito in cui l’energia sottratta al movimento ritorna all’interno delle cose per generarle di nuovo: la farfalla bianca si posa per riiniziare il ciclo. Scriveva Valery che nell’universo di sensibilità la sensazione e la sua attesa sono in qualche modo reciproche, ma il gioco è doppio e specularmente asimmetrico, giocato sugli scatti e sugli scarti che la nostra percezione pone tra l’occhio e il mondo. L’energia corre sotterranea al limite del percepibile: il grado zero è vicino alla soglia del vuoto, attesa di azione dove tutto è possibile. Come si può misurare la durata di un intervallo quando l’instabilità ci sostiene? Ma essa è sigillata, fermata dentro scatole monocrome dove i simboli della vita o di una sessualità diffusa diventano dialoghi impossibili o fecondazioni di una vita che è solo energia di un microcosmo virtuale. I frammenti che nei lavori precedenti – nelle foto – componevano una scena dove le proporzioni erano ribaltate, parti di statue, piume, conchighie, ora chiudono lo spazio dell’immagine: il tempo diviene ornamento dell’estensione in un cortocircuito di senso. Tempo metafisico che testimonia l’estraneità dei soggetti a se stessi, segni di una vita passata protesi verso un movimento futuro. ll presente segna l’inquietudine del mondo organico della Catamo, se sono gusci vuoti di conchiglie che abitavano mari lontani, il rumore del movimento continua incessante permanendo come eco. Ogni oggetto da lei collocato nella microscheda delle scatole vive di un conflitto che si svolge in un altro luogo; contemporanei ad esso possiamo solo osservarlo dalla soglia, sospeso fra le maglie di minuscoli aculei protesi verso un nemico invisibile. I tre pesci, collocati in una prospettiva che ricorda gli spazi virtuali di Escher pongono domande antiche sdoppiando il luogo della presenza in mille infiniti punti rigettando il soggetto dentro di se nello spazio interno della sua percezione. Combinazioni e metamorfosi sono le leggi che ordinano lo straniamento e la sovversione dell’ordine reale di minuscoli oggetti impediti ad essere cose. Esiste nei lavori della Catamo la temporalità dello sguardo che guarda se stesso: ne emerge una serie infinita di traiettorie in cui il termine di misura è l’intervallo e la sospensione. I suoi lavori sono fatti con la materia del sogno e come il sogno l’analogia basa il suo senso nella ubiquità dei soggetti che vivono l’invisibilità delle loro energie. Se il nero o il blu – come “in fondo al mare” – sono netti e precisi, le diverse tonalità sono usate a piccole dosi e a contrasto, quasi sempre a segnare una scansione, un ritmo che conduca lo sguardo verso un altrove. Se in alcune opere come “Fecondazione”, è indicato dalle piume che segnano la possibilità di un connubio, in altre avvolgono come polvere di vetro uova simbolicamente connotate. In Amazzonia, una splendida piuma coloratissima – decorazione degli indigeni – ricorda antichi riti. Leggero e delicato è il suono del “Re della pioggia” come di piccole minuscole gocce, che, naturale corollario di questo mondo organico in cui i conflitti apparentemente tacciono come sospesi, si infrangono vibrando appena ci si avvicina. Il gioco ricomincia per un nuovo ciclo.

Gabriella Dalesio