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AFRICA INCONTRI ’92 Teatro, musica, conferenze, mostre, cinema, video

30 Giugno 2016

Con il contributo dell’ Università de L’Aquila – fondo per il diritto allo studio. Organizzazione: circolo universitario del Cinema. Cinema – collaborazione: Centro Multimediale “Quarto di Santa Giusta” – T.A.D. U. A. Teatro Accademico dell’Università dell’Aquila (vedi programma generale).

L’Aquila Arte e attualità al centro degli “Incontri Africani”. Alla scoperta di una cultura diversa
di LUCA TORCHETTI

Terza edizione della manifestazione organizzata dal Quarto di Santa Giusta, il Tadua e il Circolo universitario del cinema.
L’AQUILA – Una setti¬mana per incontrare l’Africa. Per conoscere qual¬che faccia dell’arte prima che sia troppo tardi, che la miseria e il miraggio di culture “estranee” (quella occidentale anzitutto) facciano sparire ciò che resta d’una storia vitale e antichissima.
E’ giunta alla sua terza edizione la rassegna “Africa-Incontri”, organizzata dal Teatro accademico dell’Università dell’Aquila (Tadua), dal Centro multi¬mediale “Quarto di Santa Giusta” e dal Circolo universitario del cinema. Una settimana e quattro iniziative per tornare a parlare d’un tema che accomuna tre enti culturali. Per pro¬logo, nella serata di ieri, i tamburi e le danze del Ma¬rocco, cui seguiranno il 2 e 3 dicembre dibattiti e incontri, insieme a una mo¬stra sull’arte contemporanea (pittura e scultura) di quel grande continente.
Argomenti lontani solo in apparenza, al centro anzi dell’attualità. I cui effetti li colgono anche gli abruzzesi, interessati come gli altri al fenomeno dell’immigrazione: un avvicinamento lento e inarrestabile (seppure contraddittorio) a culture e atteggiamenti diversi dai propri. Se un pregio va segnalato della manifestazione aquilana, è quello di parlare anche dell’attualità, dei guasti prodotti da comportamenti e modelli reciprocamente errati, lì come in Italia e in Abruzzo. Due temi per tutti, trattati ambedue dalla rassegna: il rapporto tra noi e gli immigrati, in che modo ne snaturiamo l’identità e la cultura, cosa resta loro del¬la terra d’appartenenza; i problemi inoltre, i danni, causati da modelli di sviluppo incongrui da cui sarebbe illusorio (l’immigrazione appunto…) chiamarsi fuori.
Il primo dei due temi verrà trattato in un video prodotto dal Circolo universitario del cinema; un filmato il cui titolo, “Gli invisibili”, non evidenzia episodi drammatici come quelli denunciati dalla cronaca, bensì la condizione di estraneità e solitudine cui sono costretti talora anche gli studenti neri, agiati e benestanti, che studiano nel capoluogo (il 3 dicembre alle 20,45 presso il Collegio d’Abruzzo in via Camponeschi). Del secondo tratterà invece uno studioso illustre, Tito Spini, architetto e antropologo che di queste vicende si occupa in organizzazioni culturali italiane e francesi (Palazzo Carli, ore 11,30, sabato 2 dicembre). Con lui ci sarà Giovanna Antongini.
La manifestazione inoltre, aperta ieri dai tamburi e le danze rituali dei Ghnaua marocchini, una confraternita di schiavi presente in tutta l’Africa del Nord (preceduta da Ferdinando Taviani, storico del teatro, che ha presentato il libro “La storia di Bilal”, sull’incontro di quella cultura con il Mezzogiorno italiano) darà modo agli appassionati d’arte figurativa di conoscere i fermenti e le espressioni nuove degli artisti contemporanei africani. Attraverso la presentazione della più importante rivista sull’arte nera, “Revue Noire”, edita a Parigi, ma soprattutto con una mostra che riproduce in grande formato i dipinti e le sculture più significative (inaugurazione il 2 dicembre alle 20 presso il “Quarto di S. Giusta”, in via Crispomonti).
Dice sugli “Incontri” Enrico Sconci, che dirige il “Quarto di S. Giusta”: «Credo sia la prima volta che teatro, cinema, arte contemporanea e musica si cimentano all’Aquila in una iniziativa univoca. Ancor più importante è il fatto che sia organizzata da tre piccoli (quanto a mole d’investimenti, n.d.r.) enti culturali: un segna¬le nuovo per la città. Vorrei segnalare infine il costo ridotto della rassegna, appena 7 milioni, a dimostrazione che la cultura è movimento, è proporre terreni non battuti con l’occhio attento alla qualità». Ma perché l’Africa’? «L’arte, qui da noi, conosce un momento di stasi, di fermo; è necessario dunque cercare altrove, nel Terzo Mondo. Né questa operazione è soltanto abruzzese».

Il Messaggero, 27 novembre 1992

 

 

Incontri “Africa ’92”
di ANTONIO GASBARRINI
Negli “Incontri Africa ’92” in corso all’Aquila, il tema delle megalopoli-miraggio africane ed i modelli di sviluppo errati (economici e culturali) sono stati affrontati da uno dei più noti sociologi ed antropologi italiani, Tito Spini, con la concisa chiarezza di chi da oltre venti anni conduce sul posto -vivendo tra i popoli Dogon, Kassena, Danxomè- una serrata analisi sulle nuove forme di sfruttamento coloniale. I cambiamenti in atto dei modelli di riferimento culturale possono essere percepiti nella mostra di “Documenti di artisti africani” allestita al Quarto di S. Giusta fino al 15 dicembre.
A Tito Spini chiediamo: in che modo la pittura e la scultura contemporanee degli artisti africani si inseriscono nel circuito dell’arte internazionale?
«Esistono attualmente due linee ben distinte di comportamento. Innanzitutto una voluta e conclamata presenza degli artisti africani nei mercati europei, grazie ai legami instaurati per ragioni di studio con la cultura occidentale; poi, sull’altro versante, un atteggiamento più chiuso ed autoctono, quasi sempre ideologizzato, che rivendica le proprie radici più specificamente popolari».
L’arte delle avanguardie europee, ad iniziare da Les demoiselle d’Avignon di Picasso, si è spesso ispirata al primitivismo della scultura africana. Quali sono oggi gli autori o le opere che possono continuare ad influenzare gli artisti europei ed americani?
«A mio modo di vedere, la scultura cimiteriale contemporanea, è uno dei serbatoi immaginifici più originali e stimolanti dell’arte africana. Gli artisti più affermati, comunque, provengono da quelle aree della tratta degli schiavi (Brasile e Giamaica, in particolare) in cui le tradizioni originarie si sono meglio conservate. Vedere oggi in un cimitero africano gigantesche mercedes o enormi televisori scultorizzati al posto della cappella o di tristi monumenti, non deve né sconcertare né tanto meno meravigliare. Siamo solo in presenza del vudu, della sacralizzazione, cioè, dell’oggetto appartenuto nella vita e che si desidera accompagni la persona scomparsa per sempre. Va anche detto che i modelli espressivi e stilistici occidentali sono tutt’ora delle frecce “necessarie” che continuano a colpire l’arte africana. Per approfondire queste succinte indicazioni consiglio di scorrere, qui al Quarto di S. Giusta, i primi sei numeri del trimestrale Revue Noir edito dallo scorso anno a Parigi».

Il Messaggero, 10 dicembre 1992

 

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FRAMMENTI ALL’ ITALIA Lezione di Sylvano Bussotti

08 Giugno 1992

Una lezione di S. Bussotti con Sandra Fuciarelli coreografo del Balletto dallo stesso titolo (vedi programma completo dell’intera manifestazione).

 

Noto nel mondo come uno dei massimi musicisti viventi, Sylvano Bussotti, negli ultimi anni, lascia intravedere aspetti sempre più vasti della sua opera In ARTE. Scrive di lui Alain Danielou: “Co­me molti grandi artisti del passato, Sylvano Bussotti si esprime con eguale sicurezza in tutte le arti e vi è una continuità fra lo stile della sua musica, l’eleganza della scrittura e la sensibilità della sua pittura e dei suoi disegni. Padrone della tecnica, utilizza i con­cetti di un’epoca non esprimendo che se stesso: moderno e classi­co nel medesimo tempo. Egli percorre con abilità i modi artistici attuali, penetrando il segreto della bellezza o mascherandolo in strutture elaborate, creando di sana pianta, infine, personaggi e scenari delle sue superbe regie teatrali.”
Bussotti è stato per un certo periodo insegnante a L’Aquila, nella prodigiosa esperienza didattica cui seppe dar vita Piero Sadun. Il Centro Multimediale “Quarto di Santa Giusta” fiorisce anche nel seme di quell’insegnamento. Già una mostra di fotografie teatrali, dedicata agli spettacoli di Sylvano Bussotti, scattate con sensibi­lità acutissima da Jaques Cloarec, illustrava in questo spazio fa­stose invenzioni bussottiane. Oggi si vuole mettere a fuoco, con questa nuova mostra, la stupefacente ricchezza figurativa delle sue immagini, ripercorrendo in maniera quasi antologica un per­corso che va dalla fine degli anni quaranta sino alle recentissime incisioni eseguite a L’Aquila. I confini fra partitura musicale, classico dipinto a olio, disegno, oppure poema e testo letterario manoscritto, sono stati da tempo infranti da Bussotti, superando anche il sogno teatrale che Monteverdi nell’antichità, Wagner al­l’affacciarsi del mondo modemo ed altri rari musicisti perseguiro­no appassionatamente; sogno che vede le arti riunite in una sintesi di perfetta armonia, mentre sembra incarnarsi nell’opera, che di­remmo oggigiorno unica, di Sylvano Bussotti. Conclude Danie­lou: “Per apprezzare in pieno queste opere occorre comprendere com’esse siano un riflesso dell’ispirazione musicale del loro auto­re e della sua visione poetica”.

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LE BELLE ARTI DI SYLVANO BUSSOTTI Opere in musica e dipinte recentemente o nel tempo di Sylvano Bussotti

07 Maggio - 14 Giugno 1992

Le arti belle di Sylvano Bussotti, opere in musica e dipinte recentemente o nel tempo

 

con il contributo del Comune dell’Aquila e della Regione Abruzzo.
Con la collaborazione dell’ A.T.A.M., del Teatro stabile dell’Aquila e della casa Ricordi.
Presentazione della cartella codici d’arti Belle stampata da Crescenzi Allendorf Editori. Conferenza del critico d’arte Laura Cherubini, del compositore Mauro Castellano, e dell’autore Sylvano Bussotti.
Ore 18.00 Centro Multimediale – Inaugurazione della mostra.
Ore 21.00 concerto in galleria con M. Castellano (piano), L. Paoloni (violino), e S. Bussotti.

 

Nella ex sede dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila Creazioni musicali, lettura di testi originali, installazioni drammaturgiche, proiezione di video e films nell’opera integrale d’immagine dell’artista, occasionata dal Teatro alla Scala di Milano, dalla Biennale di Venezia, dal D.A.A.D. di Berlino e dalla collezione privata dell’autore.

 

musica e gesto – testo di Walter Tortoreto

Sylvano Bussotti, che ha simpatie e antipatie totali come si conviene a un grande artista, ha sempre dimostrato una sua singolare pre¬dilezione per la città dell’Aquila. Alla Società Aquilana dei Concerti di Nino Carloni ha affidato in passato la prima esecuzione di alcune sue splendide pagine. All’Ensemble Barattelli, creata da Fabrizio Pezzopane e Orazio Tuccella, ha consegnato lavori da eseguire in prima e con tale complesso Bussotti ha voluto anche lavorare, come si trattasse di un laboratorio vivente, in Italia e all’estero. Anche nel nome di un suo lavoro, “Concerto all’Aquila”, rinnova questa devozione fatta di teneri ricordi per il periodo passato a insegnare nell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila (dove ha lasciato allievi entusiastici e oggi vivissimamente grati) e di speranze affidate al futuro. All’ impegno e alla presenza di Bussotti all’Aquila si deve uno dei momenti più interessanti e riusciti delle manifestazioni collegate alla Perdonanza 1987. Per Sylvano è venuta a recitare all’Aquila Piera Degli Esposti che spiccò il suo grande volo proprio con il Teatro Stabile dell’Aquila. Per Sylvano, Piera è tornata a esibirsi nelle Chansons de Bilitis e sull’ avvenimento la stampa si è pronunciata con parole di alto elogio. Proprio in margine a questo episodio aquilano di Sylvano Bussotti, mi è sembrato opportuno tracciare del musicista sommo un profilo critico lontano dagli schemi usuali e, invece, attento a cogliere alcune costanti che sono, come accade con ciò che riguarda S. Bussotti, un intreccio inscindibile di elementi psicologici, culturali, tecnici, biologici o anche aerei (volatili) e misteriosi.

 

Come qualche maestro del passato, tra i più grandi che la storia musicale d’Italia abbia avuto, Sylvano Bussotti ama insegnare. Viene in mente, a questo proposito, il caso dei Gabrieli, Andrea e Giovanni, compositori veneziani di formazione internazionale ai quali Bussotti può essere paragonato anche per tanti altri versi: interesse esplicito per la ricerca e la sperimentazione, ma una sperimentazione sempre vissuta nel vivo dell’attività creativa; l’attenzione al rapporto tra il suono e lo spazio; uno stile spettacolare e coloristico che costruisce un insieme sontuoso, fastoso con la più meticolosa cura dei particolari. Abituati a considerare, della musica, esclusivamente l’aspetto temporale, ne censuriamo così una dimensione essenziale. Ogni opera musicale è senza dubbio una progressione lineare nel tempo; la musica, cioè, percorre il tempo e lo misura secondo un ritmo interiore (che è quello dell’artista). Ma c’è un altro aspetto, quello spaziale, che non è meno evidente, anche se meno considerato, nella struttura complessiva dell’evento sonoro. La musica nasce dal silenzio e dal raccoglimento come un gesto carico di mistero. La musica percorre e segna lo spazio facendolo vibrare con lo stesso ritmo che occupa il tempo. La struttura del suono è fragilissima e straordinariamente fugace. L’evento sonoro, infatti, dura non più di un attimo; la sua esistenza è destinata a disperdersi immediatamente dopo quel suo attimo di vita. Ma quell’attimo basta a definire uno spazio, e talvolta anche un destino. La musica è uno dei doni piu alti che l’uomo abbia fatto a se stesso per esprimere, senza mediazioni, il suo cuore e il suo spirito. Ma esiste anche una musica, nell’universo, che l’uomo non crea e che scopre indagando sullo spazio e imparando a conoscere ciò che è intorno a lui. Secondo la maggior parte delle credenze, l’inizio del mondo è stato un evento sonoro. Anche la parola della Bibbia fu all’inizio un suono. E questo conserva in sè qualcosa di eterno, qualcosa che supera i confini del tempo storicamente definito, e qualcosa d’indefinito poichè rompe i confini del nostro spazio geografico. Nella musica di Bussotti sono presenti queste intuizioni perchè egli ha dedicato tanta parte delle sue riflessioni al gesto. E la musica è gesto non soltanto nel senso brutale che ci si deve muovere per produrre un suono vocale o strumentale, ma anche nel senso piu elevato che senza gesto, senza occupazione dello spazio, non ci sarebbe musica. E il gesto esterno, il gesto per così dire meccanico è soltanto l’apparenza, la buccia di una sostanza alla quale di continuo l’arte di Bussotti tende e rinvia. Attraverso certi movimenti della mano (pensiamo un attimo al soave verso dantesco “coi dossi della man facendo insegna”), o in rapidi gesti del capo, o in attitudini del corpo, sempre Bussotti esprime un moto dell’animo, un pensiero segreto, un sentimento oppure un desiderio che può essere anche presentimento al quale l’atteggiamento dell’artista dà nobile efficacia ed espressività. Mi pare che Leon Battista Alberti abbia usato l’espressione piu adatta a dipingere le intenzioni di Bussotti: “udire il gesto”. Non è questo il momento piu idoneo a indagare sulle gestualità (al plurale) di Bussotti musicista (ben piu agevole è farlo sul Bussotti regista e interprete della sua scrittura musicale disegnata perchè sia evidente che per lui si tratta di un’attività creativa e artistica; e in quanto artistica, tale attività è frutto di un artigianato che è insieme lavoro, tecnica ed emozione. Anche nella finzione, come nella danza o sulla scena operistica, quando si rappresenta o esegue la musica di Bussotti (perchè egli è sempre ed esclusivamente musicista, anche quando sembra occupato in attività non direttamente musicali), vediamo emergere con evidenza corposa due elementi: la sovversione e la scoperta. Bussotti è, come tutti gli artisti (ricordiamo le tesi di Marx su Balzac?), un progressista; il suo sguardo va al futuro e perciò egli sa che la lingua dell’arte ama soprattutto la trasgressione. La ripetizione delle regole produce esempi grammaticali non opere d’arte. Nella gestualità della musica di Bussotti, le forme ordinarie del linguaggio, e quindi del potere, sono chiarite fino a diventare trasparenti. Gli elementi rimossi dall’ordinata coscienza collettiva tornano a galla e s’impongono come s’impone l’inconscio malgrado i tabù, proprio con lo stesso meccanismo con cui viene pensato ciò che a una società si vieta di pensare. Tra l’altro, in una società in cui si parla tanto e il bla bla imperversa dappertutto, il gesto ha l’efficacia dell’inedito. La scoperta d’altro canto è di tipo rousseauiano, ossia è il bisogno di tornare alla semplicità e alla natura. Viene in mente Althusser: “sebbene ciò possa apparire paradossale, possiamo ipotizzare che, nella storia della cultura umana, la nostra epoca rischia di sembrare un giomo segnata dalla prova piu drammatica e faticosa che vi sia: la scoperta e l’apprendimento dei gesti piu semplici, vedere, ascoltare parlare, leggere, quei gesti che pongono gli uomini in rapporto con le loro opere”. E’ quindi una scoperta e un restauro (v. Althusser e Balibar, Lire le Capital, Paris 1965). Il gesto è l’aspetto sociale e socializzante della musica. A differenza dell’ascolto solitario del disco (oppure della visione, che è sempre privata, di un film musicale, per esempio La Traviata di Zeffirelli o la Carmen di Rosi), il concerto e il teatro danno il gusto dell’evento sociale. Andare al concerto significa vedersi sentire la musica assieme agli altri, partecipare a un rito che ha del sacro, respirare l’aria che vibra satura di misteriosi e festosi richiami, e insieme significa godere di un processo di comunicazione che avviene per il solo fatto che si sta li insieme. Mi pare che nella produzione di Bussotti questo elemento sia essenziale perchè egli cerca di ricreare, suscitando emozioni inedite, quel processo smarrito di reciproca comunicazione tra palco e platea e, nella platea, tra tutti i presenti. E’ questo, uno dei valori semantici più vistosi della musica di Bussotti e, in genere, della sua poliedrica attività. In ciò, credo, l’artista toscano ha, oltre all’esempio del grandi maestri ai quali ama riferirsi nelle sue conversazioni o negli scritti, un maestro sommo, la natura che è sempre stata la stessa. E forse proprio per questo egli privilegia l’aspetto gestuale, perchè si tratta di un aspetto universale come è universale lo stesso linguaggio della musica, che non ha bisogno d’interpreti (ma questo porre il problema della polisemia della musica in termini un pò semplicistici non deve significare che non si tengano presenti le questioni legate alla comunicabili lo della musica). Qui si tocca un altro aspetto dell’attività di Bussotti che arricchisce in modo speciale la città dell’Aquila. Come accennavo in apertura, da sempre i migliori maestri hanno pensato all’attività didattica. Non c’e musicista del passato che non abbia avuto i suoi allievi preferiti e, in ogni modo, un’attività didattica più o meno intensa. L’Europa si è riempita di allievi di Frescobaldi, di Andrea e Giovanni Gabrieli, di Corelli, di Pasquini, di Porpora.
Oggi i maestri si defilano. A parte qualche caso isolato, i compositori di bel nome e i grandi virtuosi non sembrano intenzionati a formare le nuove schiere di musicisti. In genere nel Novecento, e in particolare dopo l’ultima guerra (ove si escluda il fatto clamoroso di Darmstadt, clamoroso anche per la sua stessa esistenza), l’aspetto didattico si è illanguidito nel catalogo, diventato amplissimo, delle attività dei maggiori musicisti, compositori in testo. Eppure proprio le caratteristiche della nuova musica esigerebbero un impegno maggiore sul versante didattico. Non che si debba, o si possa, insegnare la creatività; ma certamente il problema di una nuova didattica e uno dei più seri, oggi, nel mondo dell’organizzazione musicale, giacchè è posto dall’attività stessa dei musicisti che scelgono pratiche più o meno sperimentali alle quali i Conservatori rimangono tenacemente chiusi o ostili, benchè non manchino casi di felice eccezione. Al contrario, la cura di Bussotti verso i giovani (lo ricordiamo all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila; lo abbiamo visto con commozione nel lavoro con l’Ensemble Barattelli, ne conosciamo l’intenso impegno a Genazzano e a Fiesole) è amorevole e ammirevole, ed è la trepida premura del vero artista per il futuro di un’arte di natura così fugace ma pure cosi resistente e dura e perfino prepotente, da poter cambiare destini umani… Tutto questo è riflessione suggerita dagli splendidi spettacoli che Sylvano Bussotti ha preparato negli ultimi tempi per L’Aquila, una città oggi sospesa tra nostalgia e bisogno, avventura e paura. Avendo scritto altrove su “L’orecchio di Dioniso”, aggiungerò che ‘Le Chansons de Bilitis” mi hanno affascinato perchè nella realizzazione scenica studiata da Bussotti e da Rocco c’era un intreccio indissolubile di sonorità datate ma anche sospese (impressione di timbri antichi con l’imbarazzo di esserlo), c’era il sentimento di un continente recuperato (una Grecia tradotta dall’egiziano), c’era una psicologia finemente modellata benchè suggerita per tramiti sottili e indizi o lievi evocazioni e c’era il teatro creato con una parsimonia di mezzi che m’induceva a pensare alle prime rappresentazioni medievali organizzate da improbabili cluniacensi. Una bella lezione di stile e di moralità. Ma soprattutto c’era l’emozione che coglie senza scampo, quando si assiste agli spettacoli di Sylvano Bussotti.

Silvano Bussotti
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STRATI – 5 ARTISTI ROMANI Mostra collettiva di Giancarlo Piccirilli, Stefania Fabrizi, Pierluigi Fiore, Laura Barbarini, Guido Giobbi

14 Novembre - 14 Dicembre 1991

Giancarlo Piccirilli mette all’ordine del giorno la rivisitazione “fisica e lustrale” del mondo, della sua natura ormai compromessa e in ritirata. Piccirilli si avvale con singolarità del disegno architettonico e del design, per quelli che assai propriamente chiama “lavori”. C’è in lui, nel rapporto costante di reinvenzione della materia, la stessa ansia d’uso dell’artigiano. Lo confermano i materiali, pietra e legno, della sua pittura che sconfina, in ogni rappresentazione, nella scultura. Più che la dimensione del mito, la sua intenzione è la riproduzione, la “reversibilità” dell’ universo stesso. Un tentativo continuo di rielaborare la superficie, la pelle dei materiali naturali che adopera, sproporzionando su scale interiori gli scenari dell’ origine, della radice del mondo. La patina finta, su scala uno a uno, della pietra e delle venature del legno ricorda l’operazione culturale del rococò: quel falso manierato e volutamente  abbondante che dà conto dell’impraticabilità del reale così com’è. E che si presenta per sostituirlo. Un’astuzia creativa che si misura anche con la necessità di ricostruire le venature, le pieghe, la “fessura” dell’universo, ponendo ancora una volta di fronte ai propri occhi l’idea di una “soglia” da varcare, da penetrare per scoprire. Il risultato finale che Piccirilli conquista è crudele e lucidissimo: la terra, ancorché desolata, è ormai terra di nessuno – l’umano e il suo sudore appaiono azzerati – e i tempi della vita possono ancora essere, se ricostruiti dall’amore della ricerca febbrile, solo i tempi del legno e della pietra. All’opposto di questa visione da panta rei di Piccirilli stanno invece le pitture di Stefania Fabrizi, ossessivamente fondate sulla riproposizione dei corpi come rielaborazione della figura antica. Quel che interessa alla sua ricerca è proprio la commistione tra natura e presenza umana, come se l’ombra dell’ essere vivente fosse l’unico limite possibile per definire lo spazio; a partire dai contorni dell’ombra, dai sedimenti di movimento rimasti nella rifrazione dei colori. Il corpo umano diventa dunque il centro della luce. Assai particolare è il fatto che per il suo lavoro la pittrice senta il bisogno di assumere su di sé il carico di un nuovo racconto del mondo, di scoprire e inventare una sua mitologia di eventi che sperimentino la ricomparsa della luce da assorbire e riprodurre. E’ il caso dei grandi pannelli-pellicola. Separatamente, essi compongono un’opera davvero affascinante, che rivisita un volto pompeiano riprodotto nell’incanto della sua serenità: sono i pannelli dei dieci angeli che soffiano ossessivamente sui rotoli di carta della storia ancora non srotolata. Un’opera unica in quanto a nuova figurazione simbolica. O quello delle “alte maree”, dove corpi volutamente non completati subiscono l’accadere della luce, mentre l’acqua ormai li sovrasta, a creare, invece che corpi offesi nel terrore degli elementi, soltanto puri “campi di luce”.  E poi, invece del topos delle bagnanti, modello storico della pittura moderna, ecco “I bagnanti” che, nella singolare trama narrativa dell’autrice, propongono l’acqua in cui sono immersi a livello dello spettatore che guarda. Immersi, si direbbe, piuttosto che nei rimandi moderni o contemporanei, nel Rinascimento, nella luce “riflettente” blu-cobalto delle volte rinascimentali. Non tragga in inganno, però, l’elemento epico, o la passionalità dei volti raffigurati, diversamente intensi. Ogni intervento serve alla Fabrizi per il suo laboratorio di “macchie”; le sue figure, infatti, sono in funzione della macchia, del suo rapporto con la luce centrale emanata da un colore sotteso, nascosto “Dietro la macchia” (è il titolo di una sua tela significativa di creta e gessetti). In Pierluigi Fiore c’è la stessa ricerca del centro (equilibrio, non luce), lo stesso rapporto esclusivo con l’acqua, lo stesso riferimento al Rinascimento, ma anche al Barocco e alla sua ricchezza di linguaggi. Ma in una elaborazione condotta con mezzi e finalità poetiche contrapposte al “narrativo” di Stefania Fabrizi. Fiore presenta carte, srotola  pergamene e manifesti, apre quaderni, nell’intento di comunicare “frasi” che è proprio del poeta. Le sue scritture vivono per inchiostri e colori di terra, in un rapporto vitale con la liquidità di cui sono composti. Il tentativo, pienamente riuscito, è quello della raffigurazione di un nuovo alfabeto storico, capace insieme di decodificare le componenti simboliche del mondo arcaico – le forze e le forme che insieme hanno contribuito a costruire il capitello ionico – fino a ingegnare nuovi orologi personali, clessidre, strumenti sensibili che possano misurare tutto il peso che grava sul mondo. Un lavoro che lo stesso Fiore ha definito in modo appropriato: “Il dono e il sacrificio”. E’ la ricerca di un centro del mondo scelto come territorio di fuga, ma anche di ritorno. Una pittura che traccia graffi, microsolchi come segnali del passaggio dell’umano. Una pittura-scrittura che non finisce nell’atto della sua resa sulla carta, ma continua attraverso il grado di assorbimento dell’umidità – inchiostri e terre – sul foglio, perseguendo il suo gioco fino all’essenza, che diventa nient’altro  che liquido. Tornano gli angeli in Laura Barbarini, ma invece che figure simboliche realizzate e compiute, ecco puri ammassi di luce nella rigorosa rappresentazione del loro movimento. E’ una pittura alta che rimette in gioco la stessa esistenza dei colori. La nebulosa esistenza dell’angelo è il mistero che permette all’artista di riproporre la nebulosa che ha portato alla formazionepercezione dei colori. Se umani e cose appaiono accomunati nel loro azzeramento, soltanto in evoluzione può essere restituito il movimento di vortici che arriva a comporsi in materia e vive per poco tempo, miracolosamente, nel volo e nella luce dell’innalzamento dell’angelo, nella disperazione della sua precipitazione, come Lucifero. Un movimento, spiegano le sue tele di grandi dimensioni come i suoi piccoli cartoni, che è anche movimento interiore fino all’essenziale. Sono gli angeli che “nascono” il colore. Il colore non esiste, non è mai esistito. E’ la figura fantasmatica dell’ angelo – specchio della volontà di Barbarini – che nel magma della sua nascita lo crea. E vive dall’impasto dei colori fino alla realtà materica, monocromatica, del rosso fuoco e del verde smeraldo acceso. Poi l’angelo, massa di colore, prende forma, si concretizza ed esce dalla materia pittorica e dal gesto di tracciare il segno. E’ l’evento voluto dall’autrice: un consistere e sparire, un materializzarsi e dissolversi allo stesso tempo. Di questi angeli si può dire: “Nascono o scompaiono?”, lasciando in sospeso la possibilità che le figure escano dal tempo “all’origine o alla fine”. L’emozionante ciclo dell’angelo si avvale di una tecnica originale fatta, si potrebbe dire, soltanto di materia. Per Laura Barbarini sembra infatti fondamentale ridurre al massimo l’emozione della ricerca mentre gli angeli prendono forma: i suoi ultimi lavori su carta sono non a caso tracciati in cemento “per cancellare la passione del colore e distanziarsi” e per fondare. Fino a diventare analisi fredda, “appunti” sulla macchia che era stata un angelo – e che all’improvviso torna a dissolversi nello spazio. Ed è lo spazio il protagonista della pittura di Guido Giobbi, lo spazio fisico, astronomico, e lo spazio matematico- fantastico contenuto tra vuoto e angoscia interiori. La creazione dei mondi e dei pianeti svela, dall’altra parte, la sfera dell’ occhio che scruta il buio e avvista i corpi celesti. L’ansia del siderale a malapena nasconde il disastro planetari della coscienza. La nuova sfera armillare di Giobbi parte proprio dall’avvistamento della  perdita del centro e della decadenza della ragione. Vale dunque costruire, con gesso acrilico e inchiostro e su grandi pannelli di tela, una nuova fisica astronomica che materializzi le parti in cui si evolve il mondo di dentro, tra rotazioni, lame di luce, lune bisecate. Centrale, per la comprensione del surrealismo cosmico di Giobbi, è il topos della luna bisecata, con la sua luce sempre parziale. L’autore sta nella parte a metà, tra svelamento e nascondimento. I colori, anche se delicati e stravolti nel grigio intenso e nel dolcissimo rosa, retaggio d’un fuoco appena spento, sono assoluti, e riempiono lo spazio siderale come uniche presenze dell’universo.  Sono colori che contengono la parzialità della luce e delle forme. E ancora gesso, acrilico, inchiostro, in un lavoro continuo di asportazione e sottrazione, con vitalismo, addirittura con graffiti da caverna se necessario, attingendo al blu, il liquido dell’universo. Sono dunque cinque giovani pittori diversi, ma ognuno è rifratto nell’altro per un gioco non voluto di sconosciuti e invisibili specchi. Come lava accesa e ferita aperta.

Tommaso Di Francesco