Venditelli

Vendittelli Salvatore

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Nato a Roma nel 1927, Vendittelli è pittore, scultore, scenografo. Dal 1955 partecipa alle più importanti attività artistiche e culturali del momento e la sua attività si alterna tra teatro, cinema e mostre d’arte.

In contrasto col gruppo della Scuola Romana di Piazza del Popolo.


Salvatore Vendittelli afferma, dipinge, scrive, grida due sole parole: “NO” e “PLAGIO”, un avverbio e un sostantivo. Ininterrottamente, con forza e con ostinazione. Non solo esaurisce con queste parole il suo contratto discorso verbale, ma conclude anche la sua composizione figurativa, l’intero spazio della tela, fino a traboccare o a sprofondare in essa. Il fatto singolare è che Venditeli prende di nuovo pubblicamente parola e impiega di nuovo il pennello con l’assolutezza del pittore, venendo fuori da un lungo periodo di silenzio, non affatto vuoto ma colmo di altre opere, nel corso del quale ha preso attivamente parte in qualità di scenografo al “glorioso”, spericolato e sperimentale teatro confinato nella marginalità delle cantine romane, nel decennio 1961 – 71.
Ha lavorato per ben undici movimentate stagioni fianco a fianco a Carmelo Bene in spettacoli che hanno provocato scandalo, ma che hanno fatto anche data, come la prima edizione di “Pinocchio” nel 1963 e la “Salomè” nel 1964. in seguito, quasi risalendo dall’oscurità, è stato scenografo “sotto le stelle” negli spettacoli allestiti all’aperto a San Miniato in Toscana. Che appartengono anch’essi alla storia teatrale dell’ultimo trentennio. E se non bastasse, ha insegnato scenografia all’Accademia di Belle Arti, prima a Venezia, poi a L’Aquila e infine a Roma, con dedizione, talento didattico, invidiabile prestigio guadagnato su scolaresche molto spesso sbandate e recalcitranti ma sempre egualmente aperte e disponibili come è la giovinezza.
Vendittelli ci mette ora di fronte al “NO” e al “PLAGIO”. Con bruschezza e senza mezzi termini. Direi che la stessa biografia, non meno della scrittura visiva, scoglie l’enigma di queste sorprendenti tele. Il secco “NO” ripetuto in sequenze ordinate oppure esploso in successioni trasversali che si accavallano, fuggono verso i margini oppure sfocano, come a suggerire il grido e la sua eco, questo “NO” non appartiene alla trita e corrente cultura della negatività, che è quella dello spiccio, facile nichilismo di massa in cui siamo tutti invischiati e da cui veniamo umiliati. Nietzche aveva insegnato a dire “si” con coraggio e con grande generosità e non possiamo confonderlo con l’odierno prèt-à-porter nichilistico. Come non vi appartiene nemmeno il “NO” di Vendittelli. Esso discende da un nucleo intricato fatto d’insofferenza, di generosità e di speranze andate deluse e offese.
In una stagione di conformismo e di acquiescenza ad ogni livello, Vendittelli fa la sua bella libertà e la dignità della protesta. Il “NO” che siamo portati a considerare una caratteristica esclusiva dell’adolescenza –dico pur con dolore “no” al padre o ai padri per dire “si” a me stesso- diventa un prerogativa dell’esperienza accumulata negli anni e affinata nella consapevolezza. 
“Ripennes is all”, poche volte questa dura affermazione risulta vera come nel secolo che si sta chiudendo e che ha speculato a lungo e criminosamente sul mito della gioventù.
Ma non voglio adoperare la biografia fino all’abuso dell’uomo per trovare la chiave di lettura di queste composizioni. Lo stile di Vendittelli è secco come il suo “NO”e, al pari del suo “NO”, maturo e ben stratificato.
Vi scorgo una radice lontana nella grafica di Sironi fra il futurismo, l’espressionismo e la compattezza del ritorno all’ordine. E una radice vicina a farsi interna ancora in quella grande area che prende di nuovo nome dall’espressionismo, comprese le sue manifestazioni gestuali.
Ma è un espressionismo, quello di Vendittelli, tanto personale che traccia lettere tipografiche, le fa urtare, le sovrappone, le lancia verso la periferia oppure le lascia sprofondare. La scrittura della sua ripetizione è quella di oggi, ma non appare fredda e rivolta solo a sé stessa come nelle opere concettuali. E’ piuttosto di tipo mentale, compromessa con la riflessione e con una coscienza che si riferisce al mondo, alla condizione odierna dell’uomo e della società.
Poi c’è la parola “PLAGIO”, pesante come un’argomentata accusa, apparsa sulle tele dopo una lunga insistenza sulla negazione, a chiarire in maniera risolutiva il significato del “NO” di Vendittelli. La negazione è qui negazione del “PLAGIO”. Se consultiamo un dizionario etimologico possiamo imbatterci in sorprendenti chiarificazioni. “PLAGIO”, che ha affinità con “obliquo” e “scaltro”, deriva da “plagiare”, e “plagiare” vuol dire “rubare”, precisamente “rubare schiavi”. Per rubare occorrono scaltrezza e obliquità. Con penetrazione creativa, Vendittelli fa galleggiare la parola “PLAGIO” su un sfondo astratto-espressionista clonato, composto di un colore fascinatorio e “obliquo” come è l’arancione. Secondo Vendittelli siamo dunque tutti plagiati. Plagiati da chi, e poi, di che cosa? Chi ci deruba di noi stessi?
Mentre mi pongo questi interrogativi è scesa la sera. Dalla finestra scorgo, schermata da una magnolia grandiflora, l’azzurro respingente e instabile di uno schermo televisivo.
Dopo tutto, ha ragione Marshall McLuhan, ma non il pubblico sognatore dei suoi fortunati libri, ma l’uomo dubbioso e tormentato sul futuro degli strumenti comunicativi che appare con nostra sorpresa dalla sua corrispondenza privata. Il tanto atteso “villaggio planetario” si è trasformato nella cella –che non ha nulla da spartire con quella del monaco- di un single “plagiato”.

Alberto Boatto

 

 


Venditelli

Senza titolo

pittura su tela

150 x 150 cm

1997

 

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Senza titolo

pittura su tela

218 x 140 cm

1997

 

NON

Mostra personale di Salvatore Vendittelli

3 – 30 Giugno 1999

VEDI EVENTO
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Vasarely Victor

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Vasarely trascorre l’infanzia nel suo paese natale,Pécs e a 12 anni manifesta le sue precoci tendenze artistiche con il quadro Bergère, un paesaggio. Nel 1925 si diploma, e incitato dal padre, studia all’università prima medicina, poi lettere. Nel 1927 compie il passo definitivo iscrivendosi all’Accademia artistica privata Podolini-Wolkmann. Lui aveva già un’ottima predisposizione al disegno, e la formazione artistica tradizionale (va detto che la interpretava già a modo suo) perfezionò la sua abilità. Quando termina l’istruzione artistica, il giovane Vasarely crea manifesti pubblicitari, numerosi studi di prossimi quadri (poi realizzati) e piccoli dipinti.

Nel 1929 Vasarely si trasferisce al M?hely, una scuola da lui definita “il Bauhaus ungherese”, fondata nel 1927 da Sándor Bortnyik, un ex professore di quest’ultima. Potremmo dire che Bortnyik “ha scoperto” Vasarely. Qui al pittore viene descritta l’arte senza bisogno di forma, senza bisogno di qualche aggancio con la realtà, ma che si propone di figurare ciò che non può essere rappresentato normalmente. In questo periodo riconosciamo un cambiamento nell’arte di Vasarely: fa molta più attenzione alla composizione geometrica dell’opera.Nel 1930, dopo aver transitato per breve tempo attorno al De Stijl, si trasferisce a Parigi, il centro dell’arte di quell’epoca. Lì si sposò con Claire, conosciuta al Mühely. Nel 1931 nasce il suo primo figlio André, e pensa di fondare una scuola simile al Bauhaus. Nel nasce il figlio Jean-Pierre, noto poi come Yvaral. Fino la 1939 si dedica completamente al suo lavoro di artista pubblicitario. Intanto continua (senza né esporre né mostrare i suoi quadri) a studiare, sperimentando gli effetti ottici nella grafica, creando singolari rappresentazioni di zebre ed altri animali con contrasti tra il bianco e il nero. Vasarely, nel 1940 aveva conosciuto Denis René, un altro artista. In quell’anno muore Paul Klee. Negli anni tra il 1942 e il 1944 crea opere ispirandosi a lui e ad altri pittori suoi amici. Nel 1944 la galleria Denis René dedica una grande personale a Vasarely.

Il 1947 fu un anno particolare per Vasarely: cambiò infatti stile di pittura, iniziando con l’analisi degli astrattismi geometrici (le “forme nelle forme”): sassi, cerchi, quadrati, etc. Dal 1950 si sviluppa la Optical art, detta Op-Art, e Vasarely si dichiara appartenente a quel movimento, avendo praticato altri studi sulla cinetica del bianco e del nero. Verso la fine degli anni ’40 Vasarely acquista una cascinetta a Gordes. I quadri e le opere di questo periodo sono classificate sotto il periodo Gordes-Cristal, caratterizzato da forme semplificate e pochi colori, soprattutto giallo, verde e nero. Il quadro Pamir (1950) rende questa idea: il quadrato nero in primo piano e gli angoli esposti alle curve del soggetto centrale danno l’effetto che ci siano più piani spaziali sovrapposti in movimento. Il periodo si conclude con il ciclo di opere Hommage à Malevi? (realizzati tra il 1952 e il 1958), che appaiono come quadrati, rettangoli e rombi che ruotano su degli assi e sono simmetrici. Quest’opera ebbe due ruoli fondamentali: fu la rappresentazione del linguaggio figurativo svincolato dalla realtà naturale, e divenne un punto di riferimento per gli artisti che partivano dall’osservazione naturale per giungere a1955 Victor Vasarely espone alcuni quadri alla galleria Denise René con una tendenza al cinetismo subalpino insieme a Yaacov Agam, Nicolas Schõffer, Pol Bury, Jesús Rafael Soto, Jean Tinguely, Marcel Duchamp e Alexander Calder. Questa mostra divenne il primo accenno dell’Op Art, e prese il nome de: “Le Mouvement” (“Il Movimento”). Quel ciclo di quadri che lo rese famoso a livello internazionale era caratterizzato da un innato senso del movimento, quasi insolito negli altri movimenti pittorici della prima metà dell’Ottocento. Alcuni critici d’arte dell’epoca hanno definito il Mouvement una contrapposizione alla Pop Art di Andy Warhol. Infatti l’Optical Art è una concezione figurativa che affonda le radici in una tradizione di almeno mezzo secolo il cui tratto peculiare è la sempre maggiore aggressività nei confronti dell’occhio dell’osservatore. Seurat e Delaunay ispirarono Vasarely su questa teoria, soprattutto grazie agli studi chimici del Pointillisme. Da questo ha origine la Op Art vera e propria.

Vasarely, per la mostra del 1955, scrisse Il Manifesto Giallo, nel quale espone le sue idee riguardanti l’invenzione di un linguaggio cinetico figurativo, basato sulla disposizione e la riproduzione in serie di figure geometriche con colori complementari diversi. Il filosofo francese Jean-Paul Sartre disse che Vasarely era “un artiste engagé”, cioè un artista molto attivo sia dal punto di vista creativo che dal punto di vista morale e sociale. La serie di quadri dipinti utilizzando solo il bianco e nero, denominati “Noir et Blanc” si rifanno alla sua teoria esposta nel Manifesto Giallo. Il principio dell’unità plastica è l’inserimento di forme una dentro l’altra con colori e sfumature diverse, come per dare un senso di movimento unilaterale alla figura. Nel 1959 ebbe quindi origine il tanto agognato alfabeto plastico, presentato ufficialmente nel 1963, con la serie “Folklore planetario”. Le opere si questa serie di quadri sono caratterizzate da una scarsa gamma di sfumature; come composizione Vasarely utilizzò l’allineamento di cromatismi, cioè l’uso di forme incrociate perpendicolarmente di colore dalla più chiara alla più scura (nel caso specifico anche bianco e nero). In alcune opere, questa nuova concezione dell’alfabeto plastico dà l’impressione che ci siano pezzi a incastro che vengono resi chiari o scuri a seconda della luce su di essi proiettata. La teoria di Vasarely sull’alfabeto plastico derivava in parte anche dal fondamento dell’arte astratta, cioè che la bellezza pura e universale è raggiungibile solo con l’armonia delle forme e dei colori elementari.Addirittura si giunse a sostenere (come alcuni quadri di Vasarely davano anche a credere, tra l’altro) che i quadri di Vasarely costruiti secondo le leggi dell’alfabeto plastico potessero essere una verosimile rappresentazione dello spazio (i più gettonati erano le serie di quadri CTAVonal e Vega), cosa che alcuni nomi futuristici dei quadri stessi (intitolati a stelle, es. Cassiopea, o con nomi astronomici) e determinate situazioni dell’epoca non hanno fatto altro che ingrossare. Gli anni sessanta e settanta sono stati il periodo più produttivo di Vasarely dal punto di vista artistico e culturale. Le due mostre, la prima nel 1965 al MOMA (Museum Of Modern Art) di New York intitolata ” The Responsive Eye ” e la seconda nel 1967, al Musée del’Art Moderne de la Ville de Paris, con il titolo di “Lumière et Mouvement”, non hanno fatto che accrescere la sua fama, conferendogli l’immagine di artista enigmatico, da scoprire fino all’ultima “trasposizione geometrica”, come le definiva lui.

 

 

info da Wikipedia

 


Victor Vasarely_Senza titolo_serigrafia_50x50_hi

Senza titolo

Serigrafia

50 x 50 cm

 

Cicino-Validoro

Validoro Gioacchino Cicino

Nato a Paganica (AQ) nel 1934. Trasferitosi con la famiglia nel 1936, è sempre vissuto a Roma, ad eccezione di alcuni anni dell’infanzia trascorsi a Paganica, durante la seconda guerra mondiale e fino al 1947. Compiuti gli studi in Roma al Liceo Artistico, ha frequentato l’Accademia di Belle Arti, diplomandosi nel 1958 in Scenografia con una tesi su Oskar Schlemmer. Ha insegnato alcuni armi Storia dell’arte, poi, assunto dalla Soprintendenza Archeologica dell’Etruria, vi ha lavorato come grafico. Ha realizzato numerose scenografie teatrali, ha esposto in Italia ed all’estero, in mostre di pittura personali e collettive, ha collaborato con riviste d’arte e di letteratura. Convinto assertore dell’arte sociale, affascinato dagli esiti del Bauhaus, ha indirizzato le sue ricerche sulla simbolizzazione della forma e sulla duplicazione, con risultati d’assoluta rilevanza. Ha operato nel suo atelier d’artista, a Piazza del Gesù in Roma, fino al giorno della sua prematura scomparsa nel 1982. Il corpus della sua produzione artistica, costituito da oli, matite, tecniche varie, acrilici, è integrato da testi di poesia e numerosi scritti critici, a testimonianza della sua versatilità. Cinque le raccolte di poesia pubblicate per i tipi dell’editore Gabrieli. Numerosi i riconoscimenti al pittore ed al poeta. Pubblicazioni e cataloghi d’arte riportano vita ed opere dell’Artista.

 


Cicino-Validoro

Donna III

olio su tela

60 x 120 cm

1967

 

 

Tadini Emilio_senza titolo_litografia 12-100_24x35cm

Tadini Emilio

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Milano 5 giugno 1927-Milano 25 settembre 2002

È stato uno scrittore, un pittore, un critico d’arte, un poeta, un drammaturgo, un giornalista (della carta stampata e della televisione), un intellettuale civilmente impegnato.

Nasce a Milano il 5 giugno del 1927. Rimane orfano di madre a 6 anni e pochi anni dopo anche del padre per un incidente stradale. Vive la sua giovinezza prevalentemente accudito e accompagnato nella sua crescita dalla zia e dalla nonna. Con suo fratello eredita la tipografia e Casa Editrice Grafiche Marucelli acquistata dal nonno in via Jommelli, 24. In quella palazzina su due piani, sfiorata dai bombardamenti durante la Seconda guerra mondiale tra il quartiere Casoretto e piazzale Loreto, vivrà poi tutto il resto della sua vita. È cresciuto tra l’odore degli inchiostri, nella piccola impresa di famiglia dove venivano stampati i primi giornali economici: l’Esercente e il Corriere Agricolo, poi schiacciati dalla concorrenza di nuove testate economiche come Il Sole 24 Ore. Quest’attività fu poi seguita dal fratello Gianni, mentre Emilio ereditò dal padre la passione per la scrittura a cui dovette rinunciare per ragioni economiche e vi si dedicò da giovanissimo.

Accanto al suo amore per la scrittura si affianca negli anni ’50 l’amore per la pittura sviluppando un linguaggio pittorico molto autonomo a ricordare figure simboliche di quadri di Bosch. Su questo ciclo di pittura per lo più inserito nella serie “Saggio sul Nazismo” (1960) la galleria Renzo Cortina di Milano dedicò nel 2008 un’ampia esposizione accompagnata da un catalogo.  Negli anni a seguire Tadini si avvicinò al realismo esistenziale e alla Pop Art” inglese. Fortemente influenzato dalla Pop art è “Il posto dei bambini” (1966). Di questo periodo è il ciclo “Vita di Voltaire” (1967). La sua prima esposizione personale è del 1961 alla Galleria del Cavallino di Venezia e il suo primo collezionista è stato il pittore Trancredi. Ma l’inizio della sua ascesa artistica avviene con la partecipazione alla collettiva presso lo Studio Marconi nel 1965, della quale fecero parte anche altri tre grandi: Mario Schifano, Valerio Adami e Lucio Del Pezzo. Fin dagli esordi, Tadini sviluppa la propria pittura per grandi cicli, costruendo il quadro secondo una tecnica di sovrapposizione di piani temporali in cui ricordo e realtà, tragico e comico, giocano di continuo uno contro l’altro. Seguì il ciclo “L’uomo dell’organizzazione” (1968), Color & Co del 1969, Viaggio in Italia 1970, Paesaggio di Malevic 1971, Archeologia 1972, Magazine Réunis 1973, Museo dell’Uomo, 1974 e Disordine in corpo classico 1981. Nel 1978 e nel 1982 viene invitato alla Biennale di Venezia

Nel 1986 organizza un’importante esposizione alla Rotonda della Besana Milano dove espone una serie di tele che preannunciano il ciclo dei “Profughi” e quello dedicato alle “Città italiane”, poi presentato nel 1988 alla Tour Fromage di Aosta. Nel 1990 espone allo Studio Marconi una serie di grandi trittici. Del 1992 è la serie Oltremare alla Galerie du Centre di Parigi. Nel 1995 alla Villa delle Rose di Bologna vengono presentati otto grandi trittici de “Il ballo dei filosofi”. A partire dall’autunno 1995 fino all’ estate 1996 una grande mostra antologica e itinerante ha avuto luogo in Germania nei musei di Stralsund, Bochum e Darmstadt accompagnata da una monografia a cura di A.C.Quintavalle. Nel 1996 la mostra de “Il ballo dei filosofi” viene presentata alla galleria Giò Marconi. Nel 1997 espone presso la Galerie Karin Fesel a Düsseldorf, la Galerie Georges Fall a Parigi e il Museo di Castelvecchio a Verona. Gli ultimi cicli dipinti sono quelli delle “Nature morte” e delle “Fiabe che nel 1999 sono presentate alla Die Galerie di Francoforte. Nel 2001 la città di Milano gli rende omaggio con una mostra antologica Emilio Tadini: Opere 1959/2000Palazzo Reale. Del 2001 è la celebre sede di Palazzo Reale a Milano ad ospitare l’ultima mostra antologica a lui dedicata, all’interno della quale esponenti del mondo della cultura quali Umberto Eco, Arturo Carlo Quintavalle, Alan Jouffroy gli hanno reso l’ultimo omaggio.

Nell’arco della sua carriera pittorica lo invitano a realizzare esposizioni personali a Parigi, Stoccolma, Bruxelles, Londra, Anversa, Stati Uniti e Sudamerica, sia in gallerie private che presso istituzioni pubbliche e Musei.

Dopo la sua morte (2002) dal 24 al 25 settembre 2004, presso il Palazzo Reale di Milano, Fondazione Corriere della Sera organizza il convegno Le figure, le cose a cui partecipano personaggi di spicco della cultura, dell’arte, del giornalismo come Ferruccio de Bortoli, Umberto Eco, Paolo Fabbri, Arturo Carlo Quintavalle, Valerio Adami.

 

 

 

SITO WEB

 


Tadini Emilio_senza titolo_litografia 12-100_24x35cm

Senza titolo

litografia 12-100

24 x 35 cm

 

Turcato

Turcato Giulio

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Nasce a Mantova il 16 marzo 1912 da Carlo Turcato, Commissario del Regio Deposito dei Monopoli di Sali e Tabacchi, e Margherita Sartorelli. Nel 1920 si trasferisce con la famiglia a Venezia, dove segue saltuariamente l’Accademia o piuttosto la scuola del nudo, perchÈ la famiglia lo osteggiò sempre nella sua scelta artistica.
Nel 1934, durante il servizio militare a Palermo, avverte i primi sintomi di una malattia polmonare che segnerà gran parte della sua esistenza. Nello stesso anno, risulta presente alla IV Mostra dell’Artigianato, nell’ambito del gruppo di artisti veneti selezionati dall’ENPI. Nel 1937 si stabilisce a Milano, dove, ammalatosi spesso, passa per vari ospedali, riuscendo comunque a realizzare delle prospettive architettoniche per l’architetto Muzio di Milano, ad allestire la sua prima mostra personale e ad entrare in contatto con il Gruppo di Corrente senza aderirvi.
Negli anni 1942-43 insegna disegno in una scuola di avviamento professionale a Portogruaro ed esordisce alla XXIII Biennale con l’opera Maternità. Attilio Podestà commenta: “Nel concorso per opere ispirate al momento attuale è da notarsi ancora: la Maternità di Turcato, che si richiama al Birolli”. Si reca saltuariamente a Milano in compagnia di Emilio Vedova.
Nel 1943 giunge a Roma, dove partecipa alla IV Quadriennale e ad una mostra alla Galleria dello Zodiaco, insieme a Vedova, Donnini, Purificato, Leoncillo, Valenti e Scialoja. Nello stesso anno, ancora una personale alla “Campana”, e quindi l’inizio di un nuovo capitolo della vita e dell’arte di Turcato: la sua partecipazione alla Resistenza, e dopo la Liberazione, il definitivo trasferimento in città. A partire da questo momento, la sua attività artistica si lega strettamente all’impegno sociale e politico, culminato nell’iscrizione al Partito Comunista Italiano.

Nel 1945 la casa editrice Sandron (Roma) licenzia il volume Interviste di frodo, in cui Marcello Venturoli, annotando alcuni momenti della vita artistica romana, parla anche di Turcato, tracciandone un personale ritratto. Nello stesso anno aderisce alla “Libera Associazione Arti Figurative” e all'”Art Club” di Prampolini e Jarema, concorrendo a gran parte delle iniziative espositive dell’associazione, in Italia e all’estero. 
In occasione di una mostra alla Galleria del Secolo di Roma sottoscrive insieme a Corpora, Fazzini, Guttuso e Monachesi un Manifesto del Neocubismo, divulgato da “La Fiera Letteraria” nel 1947. 
Alla fine dell’anno si reca a Parigi con Accardi, Attardi, Consagra, Maugeri, Sanfilippo e Vespignani, restando fortemente impressionato dal lavoro di Magnelli, Picasso e Kandinkij. 
Il 15 marzo 1947 firma a Roma con Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Perilli e Sanfilippo (insieme ai quali frequenta lo studio di Guttuso in via Margutta) il manifesto Forma, pubblicato in aprile nel primo ed unico numero della rivista “Forma”, ove appare anche il suo articolo Crisi della pittura. 
Nell’estate dello stesso anno partecipa alla prima mostra del “Fronte Nuovo delle Arti” alla Galleria Spiga: l’esposizione costituisce la sua adesione ufficiale al movimento. In ottobre espone con Consagra, Dorazio, Guerrini e Perilli all’Art club di Roma: la mostra è considerata l’uscita ufficiale di Forma. Con lo stesso gruppo ed il critico Guglielmo Peyrce redige, in novembre, il giornale murale Da Cagli a Cagli per protestare contro il testo di Antonello Trombadori pubblicato nel catalogo della mostra di Corrado Cagli alla Galleria La Palma di Roma.
Numerosi episodi caratterizzano la sua vicenda biografica nel 1948: compie viaggi a Milano e Venezia, in Polonia, e partecipa alla V Quadriennale di Roma e alla Biennale di Venezia.
Nel 1949 tiene numerose personali a Milano, Roma e Torino ed il suo dipinto Rivolta (1948) entra a far parte della collezione della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma.
Nel 1950 soggiorna di nuovo a Parigi, dove ha modo di conoscere Manassier, Pignon e Michel Seuphor. Con opere ispirate a tematiche sociali partecipa alla Biennale di Venezia. L’anno seguente concorre al Premio Taranto ed il suo Piccolo Porto entra a far parte delle collezioni del palazzo del Quirinale. 
Nel 1952, con Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Vedova, entra a far parte del “Gruppo degli Otto”, promosso da Lionello Venturi, col quale espone alla Biennale di Venezia. Tiene una personale alla Cassapanca di Roma (11 dipinti), accompagnato in catalogo da un testo di Enrico Prampolini. Partecipa ad una collettiva dedicata al disegno itinerante negli Stati Uniti.

Diviene assistente alla Cattedra di Figura al Liceo Artistico di Roma nel 1953 ed ha una personale al Naviglio di Milano ed interviene al dibattito sul tema Arte Moderna e Tradizione aperto sulle pagine di “Realismo” nel mese di febbraio. Torna alla XXVII Biennale di Venezia con un intenso scritto di Emilio Villa che appare su “Arti Visive”. 
Nel 1955 Carrieri parla di Turcato nel volume Pittura e scultura d’avanguardia in Italia. Espone alla Quadriennale Romana (la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma acquista un suo Reticolo). 
Nel 1956 compie un viaggio in estremo oriente passando per Mosca fino a giungere in Cina, dove in giugno espone insieme a Sassu, Tettamanti, Zancanaro, Raphael e Fabbri alla mostra Cinque Pittori italiani in Cina. Notevole è, nel corso del ’57, l’interesse da parte della critica per il suo lavoro e nel ’58 la Biennale di Venezia ordina una sua sala personale, comprendente undici lavori introdotti in catalogo da Palma Bucarelli.
Nel 1959 Giulio Carlo Argan e Nello Ponente considerano il suo lavoro in Arte dopo il 1945 ed è presente alla seconda edizione di Documenta a Kassel. Insieme ad altri artisti decide di non partecipare alla Quadriennale romana per protestare contro l’organizzazione e gli organi direttivi che la presiedono e, durante un’intervista, spiega i motivi della sua decisione. Firma un articolo intitolato Conformismo: pigrizia mentale, apparso nel mese di maggio sulle pagine di “Arte Oggi”, in cui parla delle posizioni assunte dalla pittura contemporanea.
A partire dal 1960 espone con Novelli, Perilli, Dorazio, Consagra, Bemporad, Giò e Arnaldo Pomodoro nell’ambito delle rassegne intitolate Continuità, promosse in diverse gallerie italiane da Giulio Carlo Argan. 
Nel ’60 ha una mostra insieme ad Ajmone e Dova alla Bottega d’Arte di Livorno, ed un suo scritto appare nel volume Crack. Due personali, una alla New Vision Centre Gallery di Londra ed un’altra al Canale di Venezia, si svolgono nel corso del ’62, durante il quale Gillo Dorfles parla del suo lavoro nel libro dedicato alle Ultime tendenze nell’arte d’oggi.
Nel 1963 Emilio Villa torna ad occuparsi di lui presentandone la personale alla Tartaruga di Roma. Stipula inoltre insieme a Dorazio, un contratto con la Galleria Marlborough di Roma e festeggia l’avvenimento regalandosi un viaggio a New York come semplice turista.

Nel 1964 si unisce in matrimonio con la cineasta romana Vana Caruso, espone alla Scaletta di Catania ed al Segno di Roma.
L’anno dopo partecipa alla Quadriennale di Roma vincendo il premio della Presidenza del Consiglio, ed è convocato per la prima rassegna celebrativa dedicata a Forma 1. 
Nel 1966 Maurizio Calvesi ne “Le due avanguardie” e Maurizio Fagiolo in “Rapporto 60” parlano della sua pittura, mentre Nello Ponente cura il testo che accompagna la sua sala personale alla Biennale di Venezia, in cui compaiono, tra le 13 opere esposte, diverse gommapiuma.
Nel 1969 è a Francoforte, dove, in occasione di una personale alla Main Galerie D.I.V., Werner Haftamann ripercorre alcune tappe della sua carriera artistica nel corso di una conferenza. 
Negli anni settanta la sua attività espositiva si intensifica: ha personali da Boni Schubert a Lugano e da Grafica Romero a Roma; nel ’72 ha una sala personale alla Biennale di Venezia. 
S’avvia, al contempo, quel processo di “storicizzazione” della sua opera inaugurato idealmente dalla monografia Giulio Turcato che Giorgio de Marchis licenzia nel 1971, la prima in assoluto nella bibliografia dell’artista.
Nel 1973 la città di Spoleto gli dedica una prima mostra antologica, curata da Giovanni Carandente, seguita a distanza di un anno da un’altra, più vasta, al Palazzo delle Esposizioni di Roma.
Il 24 febbraio 1984 si inaugura presso il Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano la mostra Giulio Turcato. 
Partecipa alle rassegne storiche dedicate a Forma 1 a Bourg-en-Bresse e a Darmstad (1987).
È presente nuovamente alla Biennale di Venezia, ospitato nella sezione intitolata Opera Italiana (1993).
In seguito ad una crisi respiratoria, muore a Roma il 22 gennaio 1995.

 


Turcato

Senza titolo

serigrafia su carta 52/100

50 x 70 cm