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RENÉ MAGRITTE Proiezione del film documentario su Magritte

7 Aprile 1994

Un tema chiave che si trova in quasi tutte le opere di Magritte è quello della “visione”. Secondo il pittore l’immagine è una cosa a sé, esiste indipendentemente dall’esistenza della cosa stessa che rappresenta. L’arte aveva preso visione del mondo e tradotto una verità nascosta, questo era il compito dell’artista, vedere al di là dell’apparenza. Non-senso, irrazionalità, mistero e soprattutto spaiamento dell’uomo in un mondo di immagini, simboli e convenzioni. Questo è il messaggio che il surrealismo vuole trasmettere.

(dal sito www.surrealismo.it)

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POMERIGGIO SURREALISTA Proiezione di film sul Surrealismo

31 Marzo 1994

Nel periodo compreso tra il 1924 e il 1930, il movimento surrealista poté contare anche su registi cinematografici quali Luis Buñuel, René Clair, Germaine Dulac e Man Ray. L’opera più significativa del breve periodo del cinema surrealista è considerata il cortometraggio Un chien andalou di Luis Buñuel; in esso è presente la celebre scena dell’occhio tagliato da un rasoio. Nel film di Buñuel, a cui collaborò il pittore Salvador Dalí, si applica alla lettera la “scrittura automatica surrealista” inventata da André Breton, padre del movimento. Il cinema surrealista, insieme ad altre correnti (dada, futurismo ecc.), fa parte delle Avanguardie storiche del cinema, sviluppatosi per lo più in Francia negli anni venti.

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ATAM – TSA OMAGGIO AD ALBERTO SAVINO Comune di Sulmona Palazzo Mazara

25 - 26 Febbraio 1994

Una venatura orfica percorre la letteratura italiana del Novecento, ma l’orfismo presunto si scopre velleitario, visto da vicino, pur se fecondo e suggestivo. Troviamo però autori e opere non “accreditati ufficialmente” che nascondono una nervatura orfica più genuina quanto meno conclamata. L’orfico vero si riconosce per la sua reticenza a dichiararsi tale, per il sorriso di fronte alla tragicità dei misteri ultimi. Tale è la natura di Alberto Savinio e del suo “Dico a te, Clio”. Narrare d’un viaggio compiuto appena fuor della porta di casa, come in questo libro, comporta il rischio dell’autocompiacimento. L’autore ha una vena asciutta e paradossale che gl’impedisce l’autobiografismo, e coltiva l’arte dei pittori antichi, i quali « (…) cercavano (…) di rendere duraturi i colori (…) volevano che la pittura fosse, prima che rappresentazione, cosa mirabile in sé, solida, brillante come un gioiello». Muovendosi fra i monti e le spiagge d’Abruzzo a bordo d’una Topolino (siamo nel ’39), errando fra i sepolcreti dell’antica Etruria, Savinio rifiuta le mascherature mitologiche care a tanti scrittori suoi contemporanei. Certo, incontrerà i Dioscuri camuffati da giovani sportivi, si farà accompagnare dal molesto guardiano degl’inferi Caronte, ma è, di suo, abbastanza padrone del mito, per poter ascoltare le voci della natura e degli astri non meno che quelle dei trapassati, e accogliere in un’ordinata compresenza le costumanze pastorali, gli arredi funerari, le corse in automobile. Attentissimo, come i Greci fra i quali è nato, «alle parole udite fortuitamente, a talune sensazioni del corpo che essi interpretavano come presagi ». Con tutto ciò che di virtuale, divinità o miraggio, possa consentire a lui (e a noi suoi lettori) di sondare le profondità dell’uomo al di là delle barriere d’epoca e civiltà senza che  c’inganni la loro superficiale limpidezza. Discepolo eretico di Nietzsche e di Freud, Savinio prende a pretesto il paesaggio italiano, stratificato di monumenti, popoli e civiltà, per enucleare poche costanti eterne. Il viaggio, di per sé tema squisitamente mitico, è dapprima nostos, ritorno dell’esule, poi catabasi nel mondo sotterraneo dei trapassati, alla ricerca d’un nodo archetipico irrisolto. Dove più il nodo è intricato, nella seconda parte del libro che ripercorre le orme degli Etruschi, più Savinio, sul loro esempio, si fa reticente. Se quelli incutevano timore «per la forza dei loro segreti: per quello che si ostinavano a non dire», lo scrittore moderno ha come unico baluardo il linguaggio. Tersissimo, quello di Savinio: le sue scelte lessicali, i suoi ritmi non sono pedestri cartelli indicatori di una geografia dell’anima; la memoria di viaggio non è affatto sentimentale, semmai un’accettazione della distanza, della misura, dell’ineluttabile, di se stesso come presenza fra tutte le presenze, storiche e naturali. Nulla resta, fra tanta esattezza figurale, delle urgenze e confusioni futuriste; la svolta necessaria dal progressismo all’atemporalità si è consumata. Fra i doni di questo libro, la composizione non è certo tra i minori: lo scrittore sembra gareggiare col pittore, nel ritagliare fatti e personaggi, nel collocare con sapienza prospettica palazzi, città, montagne. La circolarità, anche se non programmatica, fra le varie arti praticate dal Nostro, scioglie le formule a volte troppo concentrate della sua maliziosa misantropia. Suo fratello De Chirico, il Pictor Optimus, predicava l’assoluta preminenza, in pittura, del disegno, elemento simbolico e astratto. Più sottilmente, Savinio incetta simboli e li fa cadere sotto gli occhi del lettore con gesto svagato da prestidigitatore: «la vita migliore è quella ridotta a simboli». Simboli, cime d’iceberg dalle forme eterne dentro le quali è radicato l’uomo, esplorabili e rovesciabili come un guanto. Ogni cosa vista è il pretesto per un aforisma, ogni gesto umano, ogni paesaggio, ogni particolare minuto sarà uno scarto, un soprassalto da accogliere e ordinare dentro la misura. Un’Italia che muta e non muta, quella descritta da Savinio, classica ma minata da germi di corruzione: non la modernità è causa di rovina, ma il lezio, la rinuncia alla durezza delle tradizioni. Ci piace ricordare la polemica contro la volgarità del cemento, materiale modellabile, privo d’interiorità, a differenza della pietra, o il turbamento di fronte agli innesti cristiani sulle vestigia del paganesimo. Tutto è abbastanza vicino ma inquietante, tutto è abbastanza chiaro ma sfugge, la ragione va anatomizzata come i sentimenti. La memoria del viaggio, della natura primordiale e dei resti archeologici, si orchestra per temi vettoriali. «Il passato è avido di avventure, ma senza reciprocità». Passato e avventure, senza mediazioni; il tempo narrativo s’incolla, illusoriamente, su quello esistenziale. Anche per noi che leggiamo nel terzo millennio, questa corsa per l’Italia del 1939, questo linguaggio secco e iridescente, ci sconcertano, come se fossero nostri.