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ATAM – TSA OMAGGIO AD ALBERTO SAVINO Comune di Sulmona Palazzo Mazara

25 - 26 Febbraio 1994

Una venatura orfica percorre la letteratura italiana del Novecento, ma l’orfismo presunto si scopre velleitario, visto da vicino, pur se fecondo e suggestivo. Troviamo però autori e opere non “accreditati ufficialmente” che nascondono una nervatura orfica più genuina quanto meno conclamata. L’orfico vero si riconosce per la sua reticenza a dichiararsi tale, per il sorriso di fronte alla tragicità dei misteri ultimi. Tale è la natura di Alberto Savinio e del suo “Dico a te, Clio”. Narrare d’un viaggio compiuto appena fuor della porta di casa, come in questo libro, comporta il rischio dell’autocompiacimento. L’autore ha una vena asciutta e paradossale che gl’impedisce l’autobiografismo, e coltiva l’arte dei pittori antichi, i quali « (…) cercavano (…) di rendere duraturi i colori (…) volevano che la pittura fosse, prima che rappresentazione, cosa mirabile in sé, solida, brillante come un gioiello». Muovendosi fra i monti e le spiagge d’Abruzzo a bordo d’una Topolino (siamo nel ’39), errando fra i sepolcreti dell’antica Etruria, Savinio rifiuta le mascherature mitologiche care a tanti scrittori suoi contemporanei. Certo, incontrerà i Dioscuri camuffati da giovani sportivi, si farà accompagnare dal molesto guardiano degl’inferi Caronte, ma è, di suo, abbastanza padrone del mito, per poter ascoltare le voci della natura e degli astri non meno che quelle dei trapassati, e accogliere in un’ordinata compresenza le costumanze pastorali, gli arredi funerari, le corse in automobile. Attentissimo, come i Greci fra i quali è nato, «alle parole udite fortuitamente, a talune sensazioni del corpo che essi interpretavano come presagi ». Con tutto ciò che di virtuale, divinità o miraggio, possa consentire a lui (e a noi suoi lettori) di sondare le profondità dell’uomo al di là delle barriere d’epoca e civiltà senza che  c’inganni la loro superficiale limpidezza. Discepolo eretico di Nietzsche e di Freud, Savinio prende a pretesto il paesaggio italiano, stratificato di monumenti, popoli e civiltà, per enucleare poche costanti eterne. Il viaggio, di per sé tema squisitamente mitico, è dapprima nostos, ritorno dell’esule, poi catabasi nel mondo sotterraneo dei trapassati, alla ricerca d’un nodo archetipico irrisolto. Dove più il nodo è intricato, nella seconda parte del libro che ripercorre le orme degli Etruschi, più Savinio, sul loro esempio, si fa reticente. Se quelli incutevano timore «per la forza dei loro segreti: per quello che si ostinavano a non dire», lo scrittore moderno ha come unico baluardo il linguaggio. Tersissimo, quello di Savinio: le sue scelte lessicali, i suoi ritmi non sono pedestri cartelli indicatori di una geografia dell’anima; la memoria di viaggio non è affatto sentimentale, semmai un’accettazione della distanza, della misura, dell’ineluttabile, di se stesso come presenza fra tutte le presenze, storiche e naturali. Nulla resta, fra tanta esattezza figurale, delle urgenze e confusioni futuriste; la svolta necessaria dal progressismo all’atemporalità si è consumata. Fra i doni di questo libro, la composizione non è certo tra i minori: lo scrittore sembra gareggiare col pittore, nel ritagliare fatti e personaggi, nel collocare con sapienza prospettica palazzi, città, montagne. La circolarità, anche se non programmatica, fra le varie arti praticate dal Nostro, scioglie le formule a volte troppo concentrate della sua maliziosa misantropia. Suo fratello De Chirico, il Pictor Optimus, predicava l’assoluta preminenza, in pittura, del disegno, elemento simbolico e astratto. Più sottilmente, Savinio incetta simboli e li fa cadere sotto gli occhi del lettore con gesto svagato da prestidigitatore: «la vita migliore è quella ridotta a simboli». Simboli, cime d’iceberg dalle forme eterne dentro le quali è radicato l’uomo, esplorabili e rovesciabili come un guanto. Ogni cosa vista è il pretesto per un aforisma, ogni gesto umano, ogni paesaggio, ogni particolare minuto sarà uno scarto, un soprassalto da accogliere e ordinare dentro la misura. Un’Italia che muta e non muta, quella descritta da Savinio, classica ma minata da germi di corruzione: non la modernità è causa di rovina, ma il lezio, la rinuncia alla durezza delle tradizioni. Ci piace ricordare la polemica contro la volgarità del cemento, materiale modellabile, privo d’interiorità, a differenza della pietra, o il turbamento di fronte agli innesti cristiani sulle vestigia del paganesimo. Tutto è abbastanza vicino ma inquietante, tutto è abbastanza chiaro ma sfugge, la ragione va anatomizzata come i sentimenti. La memoria del viaggio, della natura primordiale e dei resti archeologici, si orchestra per temi vettoriali. «Il passato è avido di avventure, ma senza reciprocità». Passato e avventure, senza mediazioni; il tempo narrativo s’incolla, illusoriamente, su quello esistenziale. Anche per noi che leggiamo nel terzo millennio, questa corsa per l’Italia del 1939, questo linguaggio secco e iridescente, ci sconcertano, come se fossero nostri.

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ATTENDENDO SI CHIAMA SARAJIEVO Installazione del gruppo artistico “Deposito dei Segni”

14 Febbraio 1994

Nel mese di febbraio negli spazi del Centro Multimediale si è svolta l’installazione “Attendendo si chiama Sarajevo” del gruppo artistico “Deposito dei Segni”. Il dramma della guerra è stato il tema su cui è stata incentrata l’installazione che ha “segnato” lo spazio della galleria, ricreando l’atmosfera di un “interno” esistenziale, denso di lacerazioni: un terremoto interiore dello spirito umano. Sui muri brandelli di sacchi neri della spazzatura, riecheggianti la pittura informale dei sacchi di Burri, ricostruivano l’ambiente di una stanza rifugio con sculture sospese e collage sulle pareti composte da foto ed oggetti riferiti alla disastrata condizione umana. Lo spettatore si trovava realmente coinvolto in una sorta di psicodramma collettivo, immerso in uno spazio in cui i vari elementi dell’installazione costituivano un continuum di luci fioche, suoni-rumori, versi di animali (cani e balene), proiezioni, performance, video e filmati sul tema della guerra. Il tutto restituiva una serie di sensazioni miste di angoscia, dramma, solitudine, tensione, estraneamento. In questo senso l’intero avvenimento artistico sembrava avvicinarsi incredibilmente alla tragedia della guerra, che continua a consumarsi ininterrottamente alle porte di casa nostra. Su un lato della stanza si trovava opportunamente disposto un tavolo con oggetti: l’ufficio per il “Deposito dei Segni”, dove ogni visitatore poteva esprimersi creativamente lasciando dei messaggi. Per diversi giorni, nello spirito della multimedialità, all’interno dell’installazione si sono esibiti musicisti, performer, poeti, danzatori. Costituito da artisti con differente retroterra culturale, il gruppo “Deposito dei Segni” si propone con le proprie azioni la spersonalizzazione dell’arte tramite installazioni itineranti da creare nei vari contesti culturali. Molte opere vengono create collettivamente per sollecitare l’energia creativa di ogni individuo ed i temi trattati si riferiscono spesso alle varie forme di disagio umano. Nell’attività di questi giovani artisti molti sono i riferimenti culturali all’espressionismo tedesco ma anche alle neo-avanguardie degli anni ‘60 e ‘70, soprattutto al movimento “Fluxus”. Visto il grande successo che sono riusciti ad ottenere con questa iniziativa, anche per essere riusciti a coinvolgere creativamente, sui temi da loro trattati, molti giovani, ci auguriamo, in questo difficile momento che l’intera umanità sta attraversando, di poter mettere in pratica, insieme a loro e a tutti gli altri artisti che credono nell’attività svolta dal nostro centro, il messaggio lanciato da Majakovskij nella grande stagione dell’avanguardia russa: “facciamo delle piazze le nostre tavolozze e delle strade i nostri pennelli”.

Enrico Sconci

 

A T T E N D E N D O- si chiama Sarajevo

Il guerriero viaggia

SOLITARIO

non potrebbe vivere la sofferenza dei

suoi compagni

o del suo corpo torturato

ho bruciato le mie amanti

dice

in un fuoco fatuo fatto di spirito

intorno suonano inarrestabili flauti

il corpo del guerriero non esiste materialmente

come recuperare la memoria

rompendo spazio e tempo

pensa

costruire un supporto per i sogni che

ci immerga

sa

che i sogni contengono l’essenza dell’UOMO

riemergere

il dolore secolare

rintanato nelle angosce di tutti

ora è palpabile

ha un odore e un sapore

sanguigna

è fatto di carne e cervello

torture

morti bruciati

assassini

frettolose sepolture comuni

CORPI SCHIACCATI

sempre GUERRA senza FINE.

Jörg Grünert

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ALBERTO BURRI Proiezioni di film

10 Febbraio1994

Continua la serie di incontri sull’arte contemporanea presso il centro multimediale “Quarto di Santa Giusta”, questa volta si commenterà l’opera di Alberto Burri attraverso il video che documenta tutta l’opera della fondazione di Palazzo Albizzini a Città di Castello. Burri è stato più volte ospite nella nostra città, ma molti dei nostri politici e delle nostre istituzioni sembrano più interessati a sostenere mostre di bassissimo livello piuttosto che riflettere su quanto di qualitativamente valido è stato fatto e si sta facendo per far conoscere realmente l’arte contemporanea. Dove sono le scenografie firmate da Burri per “l’avventura di un povero cristiano” di Ignazio Silone? In che stato erano ridotte le due riconsegnate a Burri? Dove si trova la terza scenografia? Attendiamo i nuovi politici nella speranza che si sappia fare qualcosa di meglio per l’arte.

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