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ARTISTI PER CELESTINO V Mostra

29 Agosto – 12 Settembre


Presso la sede del MUSPAC Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea dell’Aquila, sarà possibile visitare la mostra “Artisti per Celestino V”, che rientra nel progetto “Museo vivo della Città territorio” – Operazione Restart –  finanziato dal Comune dell’Aquila.

Di seguito il testo dell’artista Luca Maria Patella che scrisse nel 2000 per l’opera “Vas Caelestinus V”, da lui dedicata a Celestino V. Si tratta di un mosaico alto 2,50 metri che rappresenta il ritratto fisiognomico di Celestino V tratto da un’incisione calcografica settecentesca e un cartiglio su cui si legge “De vita solitaria, De altissima vita”. L’opera è stata realizzata nel 2000 dal laboratorio aquilano “Memorie”, ed è stata progettata dall’artista  in occasione della mostra d’arte contemporanea “Annuale 2000. Lo Scandalo dello Spirito”, organizzata dal MU.SP.A.C. nei sotterranei del Castello Cinquecentesco dell’Aquila.

Per l’occasione l’opera era accompagnata da altri due ritratti fisiognomici di Dante e Horatius.

La mostra, ideata e curata da Enrico Sconci, vide, oltre a Luca Maria Patella, la partecipazione di numerosi artisti di rilievo internazionale come Joseph Kosuth, Gilberto Zorio, Giuseppe Chiari, Nunzio, Fabio Mauri, Vettor Pisani, Luciano Fabro ecc…

Testo dell’artista Luca Maria Patella

DE VITA SOLITARIA / DE ALTISSIMA VITA

“Vas Physiognomicum Caelestinus V”

c’è chi guarda il Sole, le Stelle, il Tempo

che scorre eterno e perfetto, senza paura

Horatius

..Celestino rappresenta un emblema storico di grande significato, dato che le dinamiche del potere – anche nel nostro mondo – sembrano ottusamente preminenti, rispetto a quelle della Psiche, della Cultura, e di.. un’altissima Vita. ..Ma l’Arte, nei suoi significati profondi: non è proprio il luogo che si oppone a questo stato di cose?

Vorrei aggiungere che, anche all’interno della ricerca artistica, esistono forse dei..celestini, magari un po’ sommersi o avversati, in quanto tenacemente contrari al vento unicamente promanato dalle convenzioni & dal consumo. Non parlo – sia chiaro – tanto o solo pro domo mea; voglio invece suggerire a qualche coraggioso intellettuale, di prendere le distanze e guardare in profondità (volendo, possiamo anche limitarci alla produzione degli italiani, o del Concettualismo italiano, in particolare). Prendere magari..potere (un po’ più “vero” ed elevato al contempo) prendendo coscienza di realtà sottaciute o minimizzate. Per mia parte, credo si tratti di realtà sostanziali proprio a causa del loro apporto, che è consapevole della dimensione Storica.

Passiamo alle mie opere esposte (sotto il “cartiglio” del titolo): 3 “Vasi Fisiognomici”. Il visitatore si sarà reso conto che essi sono perfettamente delineati a partire da profili umani, che si scorgono o..scoprono (!) nel vuoto, ai lati dei Vasi. È questo un classico della mia produzione e che muove dall’inizio degli anni ’80. Qui, a mo’ di aneddoto, potrò ricordare una bambina di cinque anni, che – posta di fronte ad una delle Coppe – subito reagì (..a differenza di un noto critico) indicando: “la testa!”.

Ho realizzato Complessi di Vasi, dipinti o tridimensionali (in marmo, in oro..): tratti da profili di personaggi storici, o anche di viventi. Dei veri e propri “vasi-ritratti”, poiché ogni persona, ovviamente possiede un suo caratteristico profilo, e quindi un possibile Vas individuale, spesso assai diverso dagli altri. Potrò anche aggiungere che – di questi tempi – in una piazza centrale di Bruxelles, sta iniziando la costruzione di una grande “Magrittefontaine” (Fontaine Physiognomique) esattamente tornita (in “pierre bleue“, la pietra magrittiana) su profilo del maestro surrealista, nome tutelare non solo dell’arte belga. Un grande Vaso lapideo da cui zampilla in alto il “Jet d’eau”, che ricade tutto intorno, a cortina, in un’apposita vasca, velando e muovendo il profilo.

Proviamo ora a saggiare qualche “contenuto” un poco più “Secretum” (..il Vas contiene lo Spirito?). Il “Vas alchemicum” corrisponde simbolicamente alla testa, elaboratrice delle idee, nell’ ”Opus”.

..C’è quindi una perfetta corrispondenza nelle mie coppe-teste! Ma mi son chiesto anche qualcos’altro: perché i manieristi o gli artisti barocchi non li hanno realizzati? (oltretutto lo studio della “figura/sfondo” non è tanto cosa “gestaltica”, quanto assai più antica: medievale, greco-romana, e ancora precedente). Sarebbero stati, credo – anche per i manieristi – troppo antinaturalistici! (pur nella loro forma equilibrata, e nella foggia ben tornita o delineata).

O, altrimenti, potrebbero essere quasi “orientali”, simili vasi? (data la: presenza che si localizza nell’assenza. Il “Tao” racconta di un’artista che, invece di rappresentare corpi, si concentrava sul vuoto che li circonda).

I Vasa rispecchiano inoltre – nella loro configurazione – gli stili del tempo: sono, ad esempio, euritmici quelli quattrocenteschi, tormentati i tardocinquecenteschi.. Mi sono anche sorpreso, nel realizzare il vaso – ritratto di un amico artista orientale, H.H. Lim: ..è risultato con andamenti a pagoda; questo non me lo aspettavo proprio!

Eccoci ora, più specificamente, ai 3 “Vasa Physiognomica” esposti nella mia installazione: i 2 Tondi dipinti (..Nigredo e Rubedo? o, più semplicemente, i classici colori del Libro e della Stampa, storici?) appartengono rispettivamente a Dante e ad Horatius. Si tratta forse di un richiamo – così come per il titolo dell’installazione – alla classicità insita nella cultura di Celestino; nonché alle note vicende storiche? Certo, ma anche magari una contiguità geografica, per Horatius; mentre l’altro grandissimo – DANte – ..non ha colto nel segno, parlando di “viltate”.

Ed ecco infine il grande Vas Caelestinus V, dalla campitura araldica, vibrante per le tessere del mosaico. Esso è stato eseguito con maestria, in un laboratorio aquilano, dietro mio preciso disegno progettuale e sotto la capace e cortese guida di Enrico Sconci. Il profilo è tratto da un’incisione calcografica settecentesca (per l’esattezza – e data l’arbitrarietà della fonte – ne ho leggermente “migliorate” le proporzioni, apportandovi qualche modifica, dettata magari da.. Paolo Uccello!); la scritta – titolo sottostante proviene – solo ingrandita – da un repertorio secentesco “Summorum Pontificum”, del De Cavalleriis.

Ma ora vorrei concludere, salutandovi e ri-assumendo quanto ho affermato: in definitiva, questa grande e “pesantissima (!) pagina”, di cui sono grato agli amici aquilani: viene a ricordarci la forza e la libertà dell’Essere; viene a parlarci di una possibile, altissima (altrissima?) Vita!

loc artisti per celestino V_2019
Baruchello Gianfranco_litografia 73-100_29,5x20,5cm

Baruchello Gianfranco

baruchello gianfranco

Nato a Livorno il 24 agosto 1924.

La prima formazione di Gianfranco Baruchello avviene tra Roma, Parigi, New York. Sin dall’inizio della sua carriera sperimenta tutti i linguaggi: pittura, scrittura, happening, oggetto, performance, cinema, fanno parte di una ricerca ostile alle mode e alle strategie del mercato. Nella sua lunga carriera di artista e pensatore, ha intessuto rapporti intellettuali e di amicizia con grandi figure culturali come Marcel Duchamp, Jean-François Lyotard, Alain Jouffroy e Italo Calvino, condividendo con loro la critica ai modelli di controllo e potere ma restando indipendente dalle principali tendenze del periodo.

In tutto il suo lavoro l’artista riflette sulle contraddizioni del mondo, ripensando il mezzo pittorico attraverso l’assemblaggio e la scrittura e costruendo veri e propri alfabeti del pensiero, in cui si intrecciano vicende personali e vicende pubbliche, riferimenti letterari e scientifici.

Come afferma Carla Subrizi, la sua è “una storia di idee, di progetti talvolta restati inediti: un modo di sfuggire alle classificazioni costruendo tuttavia una strategia personale che ha spesso definito di resistenza. […] Una sperimentazione che ha considerato l’arte come una formula essenziale per vivere, difficile da situare tuttavia importante per aprire le menti e immaginare orizzonti storici, etici, politici lontani”.

Nel 1998, nella sua ex casa-studio a Roma, insieme alla moglie storica dell’arte Carla Subrizi, dà vita alla Fondazione Baruchello, risultato della donazione di circa cinquecento opere che l’artista ha posto alla base di un’impresa culturale destinata al sostegno e alla sperimentazione dell’arte contemporanea. Tra le recenti mostre, una importante antologica presso il Mart di Rovereto a cura di Gianfranco Maraniello (2018) e una mostra a Villa Arson di Nizza a cura di Nicolas Bourriaud (2018).


Baruchello Gianfranco_litografia 73-100_29,5x20,5cm

Senza titolo

litografia

73/100

29,5 x 20,5 cm

 

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ART e CINEMA 2019 multimediateca del muspac


Il Mu.Sp.A.C. riprende le proiezioni di film d’arte con ART e CINEMA – operazione RESTART

Film proposti:

– martedì 09 Luglio – ore 21:00 – Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità – Regia Julian Schnabel, 2018

– martedì 16 Luglio – ore 21:00 – Egon Schiele – Regia di Dieter Berner, 2016

– martedì 23 Luglio – ore 21:00 – Waste Land – Regia di Lucy Walker, 2011

– martedì 30 Luglio – ore 21:00 – Surviving Picasso – Regia di James Ivory, 1996

– martedì 06 Agosto – ore 21:00 – Luther – Regia di Eric Till, 2003

– martedì 20 Agosto – ore 21:00 – I colori della passione – Regia di Lech Majewski, 2011

– martedì 03 Settembre – ore 21:00 – Il tormento e l’estasi – Regia di Carol Reed, 1964

– martedì 10 Settembre – ore 21:00 – Caravaggio – Regia di Derek Jarman, 1986

– martedì 17 Settembre – ore 21:00 – Artemisia – Regia di Agnes Merlet, 1998

– martedì 24 Settembre – ore 21:00 – Ai Wei Wei – Regia di Alison Klayman, 2012

– martedì 01 Ottobre – ore 21:00 – Pina – Regia di Wim Wenders, 2011

– martedì 08 Ottobre – ore 21:00 – Mr. Turner – Regia di Mike Leigh, 2014

 

Tesseramento Mu.Sp.A.C. 2019: 2€
ingresso: 2€

locandina art e cinema
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Achille Perilli_la tavola di Noe_29su30hi

Perilli Achille

Achille Perilli

Nasce a Roma il 28 gennaio 1927.

Disegna e dipinge frequentando, assieme a Dora­zio, lo studio del pittore Aldo Bandinelli. Fre­quenta il liceo classico, visita i musei, scopre l’arte del ‘900 attraverso gli scritti di Margherita Sarfatti. Con i compagni di scuola, Dorazio e Guerrini, organizza la prima mostra di studenti-pittori ro­mani che si tiene al liceo Giulio Cesare.

Nel 1945 si iscrive alla Facoltà di Lettere; negli anni se­guenti sarà allievo di Lionello Venturi, con il qua­le prepara la tesi di laurea sulla pittura metafisica di Giorgio De Chirico; frequenta anche le lezioni di letteratura contemporanea di Giuseppe Unga­retti.

Nel 1946 incontra Guttuso e inizia a frequentare il suo stu­dio dove conosce Attardi, Accardi, Consagra, Sanfilippo e Turcato.

L’anno dopo partecipa alla redazione del manifesto Forma 1 (firmato oltre che da Perilli, da Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Sanfilippo, Turca­to) che viene pubblicato sul primo numero della rivista omonima (15 marzo).

In ottobre espone alla prima mostra del gruppo Forma 1 che si tiene nella Galleria Art Club, con dei dipinti che rivelano l’influenza delle opere vi­ste a Praga (nel catalogo il gruppo è presentato da Emilio Villa). Durante lo stesso mese tiene nei lo­cali dell’Art Club una conferenza dal titolo Del formalismo.

A Firenze nel 1951 si apre una succursale dell’“Age d’Or” sul Lungarno delle Grazie; nella stessa città Perilli collabora all’organizzazione di due convegni su “Arte e Architettura”.

Gli artisti dell’“Age d’Or” entrano in rapporto con Ballocco, Burri, Capogrossi e Colla e allesti­scono nei locali della Galleria Origine in Via Au­rora una loro mostra: Tic Tac di Spazio (giugno).

Lucio Fontana invita l’“Age d’Or” a collaborare alla Triennale di Milano: Perilli, Dorazio e Guer­rini realizzano in collaborazione due grandi pittu­re murali, premiate con medaglia d’argento.

Nel 1956 a Parigi conosce Tristan Tzara e frequenta la sua biblioteca studiando materiali inediti sul dadai­smo; frequenta anche la biblioteca Doucet.

Alla Biennale di Venezia del 1958 espone tre opere. Pubblica per le edizioni de “L’esperienza moder­na” Time Capsule 6958, con propri testi e litogra­fie originali.

Inizia a lavorare con la tecnica dell’incisione. Nel corso degli anni realizzerà una serie di incisioni stampate la più parte da Renzo Romero.

Nel 1968 ha una sala personale alla Biennale di Venezia; nel catalogo è presentato da A. Giuliani. Partecipa assieme a Novelli alle contestazioni contro i mec­canismi espositivi della Biennale chiudendo la sala.

All’inizio degli anni 70 espone ad una serie di mostre personali in Italia e all’estero: alla Galleria Marlborough di Roma; alla Galerie Espace di Amsterdam; alla Frankfur­ter Westend Galerie di Francoforte; alla Jacques Baruch Gallery di Chicago con solo opere grafi­che.

Nell’86 espone alla mostra personale al FIAC/Galerie d’Ari International di Parigi. Partecipa alla mo­stra di Forma 11947/1986 al Museo Civico di Gi­bellina.

Nel 1997 vince il “Premio Presidente della Repubblica”.

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Achille Perilli_la tavola di Noe_29su30hi

La Tavola di Noe

acquatinta

tiratura 29/30

 

Notturno sul Treja

Mulas Franco

ritratto1

Nato a Roma nel 1938. Studia pittura all’Accademia di Francia a Roma e alla Scuola d’Arte Ornamentale del Comune di Roma.
La sua prima mostra personale risale al 1967: quadri sulla città nei suoi aspetti di alienante benessere, autostrade domenicali, week-end.
Pur entrando nella tendenza della figurazione oggettiva, Mulas possiede un linguaggio inconfondibile: è affascinato dalla metamorfosi e dalla qualità enigmatica del colore.

“Fra i giovani pittori italiani Mulas è il più inconcepibile in bianco e nero. E questa osservazione tanto più vale a mio avviso quanto più egli ha il coraggio di non temere il confronto, l’ausilio o addirittura l’uso della fotografia nella costruzione di ciò che, soltanto apparentemente, sembra ritagliato con uno obiettivo dal caos della realtà e che a ben vedere, invece, è interamente frutto d’una energica, quanto appassionata fantasticheria” (Antonello Trombadori, dal catalogo della mostra personale alla Galleria “La Sfera”, Modena, 1968). La sua ottica di pittore sembra avere una distaccata obiettività. Ma si tratta di una finta impassibilità, per non perdere un cenno, un attimo, un dettaglio.
Così negli anni successivi, con il ciclo Occidente, sul maggio ’68, (esposti alla Galleria “La Nuova Pesa” di Roma, nel novembre 1969, con testi di D. Micacchi, F. Solmi, G. Cortenova) egli guarda con occhi fissi, senza batter ciglio, lo spettacolo della brutalità e del coraggio, dell’ossessione moderna e della rivolta. Ma il travertino delle scalinate di Valle Giulia è pietra di antiche arene e i poliziotti sono anche guerrieri con elmo e scudo.
“Per potenza immaginativa e figurativa le pitture di Franco Mulas sono le più tipiche e poetiche viste a Roma quest’anno di quella nuova tendenzialità oggettiva, sociale e politica che oggi fa l’originalità, e forse l’avvenire, della ricerca plastica dei giovani artisti italiani in un momento di ricca circolazione europea di idee, di esperienze e di opere d’avanguardia” (Dario Micacchi, dicembre 1969).
“Sono quadri tesi come una pelle di tamburo, lucidi come una pellicola in technicolor, allucinanti come dentro una folgorazione al magnesio” (Mario De Micheli, dal catalogo della mostra personale alla Galleria “Bergamini”, Milano, marzo 1970).
Nel 1972, alla Galleria “Forni” di Bologna, con presentazione di Franco Solmi, Mulas propone i risultati di una riflessione sulla violenza che permea la società e che è allevata nel privato, nel quotidiano, a cui ci si addomestica come ad un gioco, nell’indifferenza generale. Con cinque opere di questa serie, Mulas è invitato alla X Quadriennale di Roma nel 1973.
Quadri del periodo 1967-1969 sono stati esposti alla IV Biennale di Bolzano del 1971; alla mostra Tra Rivolta e Rivoluzione, Bologna, novembre 1972; alla mostra Italienische Realisten 1945-1974, Berlino, ottobre 1974.
Nel 1974 Mulas espone a Roma alla Galleria “La Nuova Pesa”e poi nel 1975 a Firenze
alla Galleria “Santacroce” con presentazione di Fortunato Bellonzi ed infine a Torino alla Galleria “Ricerche”, con presentazione di Antonio Del Guercio, 25 quadri dal titolo: Itinerari; e qui la polemica pittorica con l’Iperrealismo e la Body Art, imperanti in quegli anni, è violentissima.
“Il suo lavoro rifiuta coscientemente di considerare l’immagine d’arte ‘un mero problema di forma’; ed è per tale via, sotto l’urgenza autentica delle cose da dire, che il modo di dirle diventa formalmente ineccepibile, recuperando, insieme con la pienezza del colloquio aperto a tutti, nel termini di un’eloquenza alta e severa, anche il sentimento della storia, della nostra tradizione”. (Fortunato Bellonzi, dal catalogo della Galleria “Santa Croce”, 1975).
Questa ricerca arriva nel 1978 all’opera Autoritratto-Identikit, esposta nel gennaio 1980 alla Galleria ‘IL Ferro di Cavallo-Kunsthalle” di Roma, e poi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Si tratta di quattro autoritratti costruiti con i tasselli dell’Identikit. Ancora le immagini sono pietrificate, con in più, come nota Micacchi nella presentazione alla mostra, un monito riscontrabile nel giustapporsi dei tasselli: “basta un minimo spostamento che la persona non c’è più, risucchiata senza sguardo tra mille altre.”
A sancire una svolta nella produzione di Mulas è la partecipazione alla XXXIX Biennale di Venezia del 1980, nella sezione Architettura con il GRAU, presentando la sequenza di 4 quadri, L’Albero rosso di Mondrian, 1979. La stessa serie è presentata alla mostra Prove di Autori, Pinacoteca Comunale, Ravenna gennaio-marzo 1980.
Nel catalogo della Biennale di Venezia, il GRAU spiega come per Mulas si tratta di una critica alle radici del Movimento Moderno – critica condotta, anche dal gruppo di architetti – con un percorso a ritroso alla riconquista dello spazio pittorico (e non assoluto) e di una naturastoria.
L’interesse a una natura che diventa sognata, simbolica, è approfondito nelle opere esposte a Roma nel 1985. (La montagna d’acqua, La nave di pietra, L’isola, etc.). 
Le sue opere sono il frutto di una paziente opera di ‘costruzione’ pittorica e luministica, dove le immagini emergono da luoghi lontani. Gli avvenimenti si fondono e vengono riportati alla luce tramite un fitto intrecciarsi di ramificazioni di memorie passate.
“Così a ripercorrere l’itinerario dell’artista, si scoprirebbe quanto poco realistico, e tanto meno iperrealistico, sia stato il suo lavoro; che sempre, ai personaggi reali (calati in un concreto e magari banalizzante flusso di cronaca e storia) egli ha sovrapposto un “fantasma ironico o crudele, o pietosamente stravolto: di carne e sangue, e tuttavia trascritto nel simbolo; e cosi interamente da non offrire certezza alcuna, ma piuttosto i segni di oscure ferite della ragione e dell’inconscio… entriamo dunque in questa misteriosa regione.” (R. Vespignani, presentazione alla mostra Finzioni, alla Galleria “Ca’d’Oro”, Roma novembre 1985).
In questi anni Mulas viene invitato ad importanti rassegne tra le quali la Biennale di Milano nel 1984 e nel 1989; la Quadriennale di Roma nel 1986; la mostra Pittura Italiana dal dopoguerra ai nostri giorni, San Paolo e Rio de Janeiro nel 1989.
Nel 1989 gli viene conferito il “Premio Presidente della Repubblica” per la Pittura, dell’Accademia Nazionale di San Luca.
Con il vasto ciclo Big Burg, presentato a Roma, alla Mostra Antologica di Palazzo Braschi, Mulas porta a radicale evidenza dati mentali e culturali che variamente hanno segnato la sua vicenda artistica. Ma un dato caratterizza questa importante fase della sua ricerca: il colore. Un nuovo cromatismo entra nella tavolozza del pittore: “… la vicenda stessa del colore come elemento concretissimo e al tempo stesso emblematico dell’incalzante artificialità del mondo…” (Antonio Del Guercio, dalla presentazione al catalogo della mostra di Palazzo Braschi, novembre 1991).
Nel 1996 viene invitato dal critico Marco Goldin alla mostra Figure della Pittura. Arte in Italia 1956-1968, Palazzo Sarcinelli Conegliano.
Il critico Nicola Micieli ha curato nel 1998 un’importante mostra di Mulas al Palazzo dei Priori di Volterra, dal titolo Dipinti 1980-1998.
Dal 1998 Mulas sta lavorando ad un nuovo ciclo: “Schegge”, esposto nel 2005 alla Galleria Forlenza di Teramo, e nel 2006 all’Ex-mà di Cagliari.
Scrive Roberto Gramiccia nel testo critico in catalogo per la mostra di Cagliari: (…) Il suo ultimo ciclo, quello delle “Schegge”, è ,forse, per potenza, originalità e spericolatezza il più “giovanile” di una carriera ormai lunga e prestigiosa iniziata verso la fine degli anni ’60.
Nel 2011 viene invitato alla 54° Biennale di Venezia-Padiglione Lazio
Nel settembre 2000 è nominato Accademico dell’Accademia Nazionale di San Luca. Vive e lavora a Roma.

 

 

 

 

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Notturno sul Treja

Notturno sul Treja

olio su tavola

84 x 110 cm

2010

 

 

 

L’opera è stata gentilmente donata dall’artista al MUSPAC, per la ricostituzione

della collezione permanente, gravemente danneggiata dal sisma del 6 aprile 2009

 

Tenere aperta la pratica…

Franco Mulas dipinge ormai da più di quarant’anni. E uno si immaginerebbe, non conoscendolo, un signore tranquillo e appagato. Uno che ne ha viste di cotte e di crude. Che ha avuto i suoi successi e i suoi riconoscimenti e che, quindi, oggi passi il suo tempo a gestire tranquillamente la sua piena maturità artistica insistendo sulle cose che gli riescono meglio. E invece no. Mulas non ci pensa proprio alla “pensione dorata del pittore” e si è messo in gioco come un ragazzo.
Il suo ultimo ciclo, quello de le “Schegge”, è,  forse, per potenza, originalità e spericolatezza il più “giovanile” di una carriera ormai lunga e prestigiosa iniziata verso la fine degli anni ‘60 con la prima serie di dipinti che prese il nome di Week-end, seguita dalle opere ispirate al Maggio francese e alla contestazione giovanile e dai cicli “Pitture nere”  e “Itinerari (anni Settanta), dalle serie “Autoritratto Identikit” e dalla sequenza di quattro dipinti con cui nell’80 partecipò alla Biennale di Venezia dal titolo “L’albero rosso di Mondrian”, dal capitolo de le “Finzioni”, da “Big Burg” fino ad oggi.
Se non fosse per una vena cospicua di ironia (e autoironia) continuamente rifornita da una umanità affabile ma cinica, come accade ai romani puro sangue,  Mulas potrebbe passare per un allievo postmoderno di Giordano Bruno, per lo sguardo critico e unitario che riesce ancora a dirigere sul mondo.
Ebbene nella sua pittura l’ironia scompare. Rimane la carica eversiva di chi rappresenta l’esplosione di una realtà che, dietro le apparenze plastificate di una stagnazione apparente, mostra le crepe ingravescenti di un processo di disaggregazione  delle strutture fondanti della società occidentale, delle strutture fondanti del pensiero critico e creativo, della natura stessa colpita nel cuore dei suoi più intimi e imprescindibili equilibri..
Guerre “preventive” e non, azioni e reazioni terroristiche, catastrofi naturali di portata enorme facilitate dalla politica temeraria e improvvida delle grandi corporation, rischi di pandemie simili alla peste del Manzoni, fughe e migrazioni epocali dalla miseria e dalla morte e quant’altro è inevitabilmente connesso con le dinamiche perverse di questi processi distruttivi producono, inoltre, conseguenze incalcolabili in termini di immiserimento morale e di annichilimento delle coscienze, rese ancora di più spiritualmente patogene dalla influenza narcotizzante dei media.
Le schegge di questo mondo Franco Mulas dipinge. E la sua pittura non può avere cedimenti  perché, come negli anni ‘60 e ’70, è sostenuta oltre che dall’esercizio di un “nobile mestiere”, da una tensione etica senza esitazioni. Naturalmente l’artista non è  un agitatore politico. Non è un propagandista, né un illustratore. I suoi non sono, ne possono (né debbono) essere comizi.
Mulas usa i colori ad olio su tavola come gli antichi maestri. Come gli antichi maestri dipinge  paesaggi. Ma i suoi paesaggi sono diversi da quelli di Corot o di Segantini, perché pur attingendo dalla realtà, di essa non aspirano a dare una rappresentazione mimetica, se non nell’utilizzo dei colori del contemporaneo. Questi colori sono tratti da un mix di sollecitazioni retiniche che provengono da una natura “sporca” e contaminata e dall’enorme “reservoir” delle immagini digitali della pubblicità e dell’ipercomunicazione. “Per raccontare il dramma del paesaggio – mi dice Mulas – uso delle nuance di colore impensabili ai tempi dei grandi pittori di natura di fine Ottocento, ma che un bambino di oggi che passa ore davanti al computer o alla televisione percepisce come naturali”.
Per il resto egli non dipinge case, prati, montagne, fiumi o ponti, cartelli pubblicitari, campi di calcio, oggetti di consumo, figure, immagini digitali accattivanti o ripugnanti. Non dipinge queste cose ma tutte queste cose, ugualmente, sono dentro la sua pittura fintamente astratta, che raccoglie in se la forza e la velocità del gesto, centrifugando gli elementi costitutivi di una realtà naturaltecnologica che tende ad autodistruggersi. Per questo – la cosa ami ha assai colpito – Mulas parla di “dramma del paesaggio”. Perchè in esso c’è, “riassunta” metaforicamente, la crisi profonda del nostro tempo.
La velocità di esecuzione e la rappresentazione stessa della velocità, resa magistralmente con l’uso del “fuori fuoco” e del “fuori registro” che alludono alle quadricromie della stampa e con la pratica istintiva della rasoiata pittorica e del colpo di spatola, fanno pensare a una riedizione del dinamismo plasitico futurista (viene in mente “La città che sale” di Boccioni). Ma mentre per i Futuristi la velocità testimoniava  i trionfi di un’immancabile, elitaria e superiore civiltà meccanica, per Mulas la velocità è quella della dissoluzione, del vortice, del mulinello che alza la polvere delle rovine di una civiltà che stiamo perdendo. “Voglio dipingere velocemente la velocità, la frantumazione del mondo, della società” dice l’artista romano che ha negli occhi la scintilla di chi non si rassegna ad essere uno spettatore passivo.
Se c’è un errore da evitare nell’accostarsi all’opera di questo autore è quello di abbandonarsi ad una lettura della sua pittura emotivamente consegnata alle lusinghe del policromatismo e del gesto (di sorprendente virtuosismo tecnico). Mulas è un virtuoso. Ma non vuole essere e non è solamente questo. E ove si osservino le sue “Schegge” con l’attenzione che fa del fruitore un complice sensibile ((un co-autore), si avverte un piacere e un disagio insieme. Una cosa che ti prende allo stomaco. Un pugno sferrato senza alcuna concessione alla retorica e alla propaganda. Questa sensazione è il segno che l’obiettivo è stato raggiunto.
Per molti anni si è detto che la caduta delle ideologie ci avrebbe dischiuso orizzonti immancabili di pace e di progresso. Non è stato così. La pittura di Mulas, oltre ad intrattenere in se il bene della qualità, una cosa almeno ce la insegna: che bisogna rimanere svegli, svegli nella ricerca e liberi nel giudizio. L’ideologia di una nuova intelligenza critica che riscopra il gusto di coniugare etica ed estetica, senza atteggiamenti bacchettoni ed arroganti, ma con la forza del lavoro e l’umiltà orgogliosa che deriva dalla consapevolezza di appartenere ad una nobile tradizione è quella che Mulas, con il suo lavoro, ci propone.
Per un artista di valore il mercato, la tecnologia, la mondanità vengono dopo o non vengono proprio. Quello che conta è mantenere dritta la barra senza tentennamenti, aggiungendo, quando è possibile, anche solo una virgola alla storia dell’arte, alla storia dell’uomo. Questa cosa è obiettivamente progressiva (una volta si sarebbe detto rivoluzionaria) ed importante perché contribuisce a  mantenere aperta una questione a cui Mulas, crediamo, tiene molto: non ratificare la fine della storia ma tenere aperta la pratica, magari…in attesa di tempi migliori. Mulas il suo contributo lo sta dando. E noi gliene siamo grati.

Roberto Gramiccia

2006