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VIZIO E ARTE Sette artisti per sette vizi capitali - a cura di Gabriella Dalesio.

29 Febbraio - 11 Marzo 1996

Mostra d’arte contemporanea, Sette artisti per sette vizi capitali a cura di Gabriella Dalesio.

 

Sette artisti per sette vizi capitali? La domanda è impertinente o pertinente se vogliamo giocare con il gioco che quasi sempre l’arte ha nei confronti della realtà, sia quella mondana che può riguaradare tempi di corruzione o di piena barbarie ma anche quella antropologica sui comportamenti umani, sulle potenzialità di rinnovamento, ma anche sulle possibilità che l’essere umano ha di guardarsi dentro riconoscendo in sè stesso, prima di tutto, i propri vizi, le proprie passioni. Passione: essere soggetti a patimento. E quale è il maggiore patimento se non quello che, attinente agli impeti del desiderio, provoca, a catena, pensieri, azioni, per il fine di soddisfarlo? L’arte e gli artisti, se possiamo far coincidere un modus con chi di esso se ne fa interprete, a volte inconsapevole, si collocano sul crinale di un impossibile giudizio ma sicuramente di un potenziale critico riguardo all’umano agire, spesso non consapevole e meccanico. Ma si potrebbe obiettare- ed è qui che il confine con l’ “impertinente” si fa più arduo e ne sfiora il limite – che l’arte, nel suo impulso creativo, si è fatta voce delle passioni dell’animo, oltrepassandole. Ma sono le passioni i vizi o il vizio è uso reiterato e “programmato” di una passione? E l’arte non potrebbe essere forse all’estremo di questo limite, là dove la passione si sublima in qualcosa d’altro? Le domande che ci siamo posti hanno anche delle potenziali risposte, traduzioni “in immagini” delle logiche, a volte vicino all’assurdo, dei vizi. Ne è nata una mostra in cui la rappresentazione di essi ha generato piccole sfaccettature, o uno spaccato su una realtà sociale che tende, a grandi passi, verso una piena barbarie, e un impigrimento delle nostre capacità reattive, come è puntualizzato nel lavoro di Gianluigi Lama; o quella ancora più pervasiva di una “lussuria” che interviene, infida, a minare qualsiasi rapporto umano, influendo sulla stessa innocenza di chi inavvertitamente si presta al gioco della ricerca del piacere, per il piacere. E’ il lavoro di Toni Ferro che nella doppia immagine proiettiva della bambina e della bambola gonfiabile rivela la mina psicologica che si è innestata sulle identità degli individui. La sua è infatti un’arte antropologica che fa dell’essere umano e della sua trasformazione un discorso a ritroso, che riguarda le sue stesse origini. Chi invece sul crinale della passione (o del vizio) vi mette l’arte stessa è Peppe Capasso. Ponendosi in prima persona opera la doppia lettura di un vizio, la superbia, con i versi Rimbaud, di Majakovskij e di altri autori in abbinamento con un incudine che battendo porta la scena dell’arte su se stessa, avvicinando questo vizio alla saggezza, come altra faccia del potenziale artistico. Come risultato finale ne emerge una scultura che può essere osservata dentro scoprendo la propria nudità (un corpo di donna di un’opera classica). Ma, attenendoci alle regole del piccolo gioco, ad esempio quello della gola, posto in essere da Caterina Arcuri o di egoismi ben rappresentati dall’opera di Angela Romano che espone, a mò di teca, del pane ammuffito a dimostrazione di come l’avarizia possa trattenere, sino alla decomposizione, pur di non dare, concedere all’altro qualcosa che potremmo avere in sovrappiù. Ed è sempre l’altro il referente di chi, pur di non guardarsi dentro, prende a pretesto le altrui qualità per vivere di riflesso (negativo) in una catena di “sguardi” puntati fuori di sè: è il lavoro fotografico di Saveria Turrà. Ed è fuori di sè, fuori di cervello chi si fa irretire dalla passione dell’ira: è l’immagine di Hermes Ferro che come pone in scena un cervello vero sotto formalina.

 

Gabriella Dalesio

carnevale in musica 1

CARNEVALE IN MUSICA Allegorie, maschere e danze per il Carnevale

20 Febbraio 1996

Serata musicale organizzata dall’Assessorato alla Promozione Culturale del Comune dell’Aquila con il Conservatorio di Musica “A.Casella”. Concerto della scuola di mandolino del Maestro Fabio Menditto.

Fabio Menditto ha iniziato gli studi musicali con il Maestro Ugo Orlandi presso il Conservatorio “Cesare Pollini” di Padova nella cui sede si è brillantemente diplomato. Svolge un’intensa attività artistica che lo vede impegnato in qualità di concertista ed insegnante. Come solista ha suonato in gruppi cameristici ed in formazioni orchestrali per importanti Istituzioni musicali italiane (Teatro dell’Opera di Roma, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Orchestra Sinfonica della RAI, Accademia Filarmonica Romana, etc.). All’estero ha tenuto numerosi concerti (Spagna, Francia, Austria, Svizzera, Germania, Slovacchia, Grecia, Pakistan). Ha effettuato registrazioni di musica antica pubblicate in CD per l’etichetta francese “P: Verany”. Attento e sensibile al recupero e alla esecuzione della musica originale per mandolino e per orchestra a plettro, svolge questa attività in seno al Circolo Mandolinistico Costantino Bertucci in veste di direttore artistico. Collabora con RAITRE per i programmi radiofonici riguardanti il repertorio colto di musica per mandolino. E’ professore di mandolino presso il Conservatorio “Alfredo Casella” di L’Aquila e ha tenuto Corsi internazionali di perfezionamento per l’Accademia Leonardo da Vinci di Catanzaro, per il Centro Musicale Calabrese “Francesco Cilea” e, all’estero, per la Società Artistica Rojana di Logrono, Spagna.

carnevale in musica
CARMELO BENE

PER CARMELO BENE Mostra documentaria e serata multimediale

25 Gennaio 1996

Mostra documentaria e serata multimediale con la presenza di Carmelo Bene. Mostra di foto, libri, testi per il teatro e proiezioni di film.

 

Da molti viene considerato un affabulante ingannatore o un presuntuoso “massacratore” dei grandi testi; per altri Bene è stato uno dei più grandi attori del ‘900, e questo suo “variare” era un modo per andare contro corrente. La sua lotta era rivolta al dilagante naturalismo che, nell’arte in genere e soprattutto in teatro, si espanderà attraverso la drammaturgia borghese. Il suo era non solo uno schierarsi contro le classiche visioni del teatro e della drammaturgia, ma attraverso il suo genio egli rivendicava l’arte attoriale innalzando l’attore da mera maestranza (così definita da Silvio D’Amico) ad artista. Per Carmelo Bene il testo, poiché nato dalla penna di uno scrittore spesso avulso dal problema del linguaggio scenico, non può essere interpretato: esso deve necessariamente essere creato, o meglio ri-creato dall’attore. Carmelo Bene si scaglia contro il teatro di testo, per un teatro di differenza da lui definito “scrittura di scena”, un teatro del dire e non del detto, perché per lui il teatro del già detto non dice niente di nuovo, sarebbe un ripetere a memoria le parole di altri senza creatività, quello che Artaud, caro a Bene, definì un “teatro di invertiti, […] di Occidentali”. E’ l’attore che con la scrittura di scena produce teatro hic et nunc. Il testo è “spazzatura” nella scrittura di scena, perché lo spettacolo va visto nella sua totalità. Il testo ha lo stesso valore di altri elementi come le luci, le musiche, le quinte, ecc. Il teatro di testo, di immedesimazione, viene definito da Bene come un teatro cabarettistico. Gli attori che si calano in dei ruoli, che interpretano, sono per lui degli intrattenitori, degli imbonitori, dei “trovarobe”. Nel suo teatro, l’attore è l’Artefice. Bene rivendica la scrittura di scena, in cui il testo non viene più messo in risalto come nel teatro di testo, viene anzi martoriato, continuando un discorso iniziato da Artaud, che già aveva iniziato la distruzione del linguaggio, ma che per Bene fallì sulle scene, perché “cadde” nella interpretazione. Carmelo Bene distrugge l’Io (immedesimazione in un ruolo) sulla scena, a favore di un teatro del soggetto-attore alla quale superbia è affidata la scrittura di scena. Impossibile dimenticare le sue versioni di Amleto: mai nessuno aveva interpretato il testo di Shakespeare in quel modo. Amleto/Bene recitava le parti più importanti della pièce senza alcuna importanza, o addirittura, come nel caso “dell’essere o non essere”, la recita era rimandata ad un altro attore, che gli faceva da alter ego. Bene si contrappone al teatro del suo tempo (Teatro di Contraddizione). Verrà definito Attore Artifex, cioè attore artefice di tutto, quella che era la visione del <>. Ma Bene si definì con un neologismo degno di lui stesso come una potente e poderosa MACCHINA ATTORIALE: creatore e creato al tempo stesso, autore, regista, attore, scenografo, costumista.

 

Consultare il sito:
http://www.fondazionecarmelobene.it
http://www.museomuspac.com

Senza titolo

VARIAZIONI MINIME Mostra personale di Laura Palmieri

25 - 30 Gennaio 1996

Mostra di opere realizzate al computer da Laura Palmieri.

Presentazione in catalogo di Cecilia Casorati, incontro-dibattito con Cecilia Casorati e Laura Palmieri.

Il lavoro del critico è – dovrebbe essere – un lavoro di linguaggio. Le analisi – anche le più raffinate e profonde – hanno il limite della storia; in altre parole sono strette nel perimetro del tempo – relativo – dell’opera. La parola libera l’immagine dalla sua oggettualità, la trasporta forse soltanto per pochi attimi – accanto all’astrazione del pensiero, le toglie fisicità.

Le parole che “inventano la somiglianza” rifuggono la descrizione, aborriscono i codici pseudo­narrativi che ci permettono di immaginare – vedere? – l’opera; giocano con astuzia la parte del nomade in modo che le cose trovate “diventano in un certo senso le cose inventate”; procedono a passo lento permettendoci il piacere dell’osservazione.

 

Le “Variazioni minime” di Laura Palmieri sono un gioco di osservazione che sperimenta le nostre capacità percettive, ma soprattutto sono un lavoro di e sul linguaggio che, parafrasando Raymond Queneau, potremmo chiamare esercizio di stile.

Le “Variazioni minime” non hanno bisogno di alcun commento, sono un limite tra l’occhio e il linguaggio, richiedono esclusivamente l’attenzione dello sguardo ma non di meno – grazie ad un’affinità “procedurale” – si prestano ai giochi di parole.

Notazione: Le “Variazioni minime” di Laura Palmieri sono un gioco di osservazione che sperimenta le nostre capacità percettive.

Sogno: C’era soltanto un grande occhio che occupava tutta la parete della stanza. Di fronte dei piccoli fogli di carta. L’occhio si muoveva verso di loro e poi, all’improvviso, mi sono svegliato. Ode: Laura Palmieri/tra tanti mestieri/scelse di fare l’artista/e gioca con la vista. Con sottile attenzione/analizza la percezione ma il vero esperimento/è metter in mostra il cambiamento. Telegrafico: Laura Palmieri stop artista giovane stop decostruisce stop un’immagine stop mostrando stop le sue variazioni stop passo dopo passo stop.

Reazionario: Che tempi! Non capisco che cosa vogliano esprimere questi artisti contemporanei che si dannano ad utilizzare mezzi – come il computer – che non si addicono alla creazione. Per fortuna che c’è ancora qualcuno che dipinge dei bei paesaggi. lo, state sicuri, non mi faccio fregare da questi esperimenti visivi.

Comunicato stampa: Laura Palmieri è una giovane artista romana che lavora essenzialmente con la pittura in questa sua prima mostra personale, dal titolo “Variazioni minime”, presenta delle opere su carta, realizzate con l’ausilio del computer il cui intento principale è quello di mettere in scena alcune delle possibili variazioni dell’opera. Un esordio positivo e molto promettente.

Recensione: Questa mostra ci mette di fronte alle numerose variazioni dell’opera. Il nostro sguardo è catturato da quei cambiamenti quasi impercettibili in scritti nella forma monocroma che diviene lo specchio della nostra incapacità visiva. In un epoca in cui siamo dominati dalle immagini, tanto da non vederle quasi più, le opere di Laura Palmieri ci invitano a riflettere sul potere dello sguardo.

 

Cecilia Casorati

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I GIOVEDI DEL MUSEO SPERIMENTALE Alberto Burri, proiezioni video: “Il Museo di città di Castello” e “Il Cretto di Gibellina”

11 - 18 Gennaio 1996

Il Grande Cretto di Gibellina è una grande opera d’arte ambientale realizzata da Alberto Burri. È situato sull’area dove un tempo sorgeva l’abitato di Gibellina. Un violento terremoto colpisce la valle del Belice nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, distruggendo completamente Gibellina. Di fronte all’impossibilità di ricostruire l’abitato sulle rovine, l’amministrazione cittadina decide di lasciare sul luogo una testimonianza della tragedia a perenne ricordo delle vittime e delle grandi sofferenze sopportate. L’incarico viene affidato ad Alberto Burri, che concepisce una versione amplificata dei suoi famosi Cretti.  La titanica impresa inizia nel 1985 e viene interrotta nel 1989.
Il Grande Cretto di Gibellina si presenta come un’enorme coltre di cemento bianco, che si dispiega sul fianco scosceso della montagna. Ha forma di un quadrilatero irregolare di circa 300×400 metri. Il suo aspetto ricorda un’immensa superficie ondulata, spaccata da profonde crepe e fenditure. L’effetto è dovuto alla sua particolare struttura a grandi blocchi di cemento, grosso modo quadrangolari, separati tra loro da profondi solchi. I blocchi misurano 10-20 metri di lato e sono alti circa 1,60 metri. I solchi misurano in larghezza circa 2-3 metri, e sono percorribili a piedi.
È fondamentale notare che il tracciato dei blocchi e delle fenditure ricalca sostanzialmente l’antico impianto viario, con i suoi isolati e le sue stradette. L’intenzione di Burri è stata, cioè, di restituire un’idea dell’antico abitato.
Il Grande Cretto di Gibellina è la più grande opera d’arte ambientale in Italia e una delle più importanti al mondo.
Nulla è comparabile per dimensioni e ricchezza di significati. Solo le immani sofferenze della gente del luogo riescono a far impallidire le sue proporzioni gigantesche. Sofferenze di cui, peraltro, l’opera di Burri costituisce il sacrario più emblematico. Visitando la Sicilia occidentale, farvi tappa è d’obbligo. Si consiglia di percorrere almeno in parte il tracciato delle strade, che si insinuano tra i blocchi. Solo così si percepisce pienamente quel senso di morte, che nasce dal ricordo della città distrutta.

 

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