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ENSEMBLE DANCERYE Concerto musicale

8 Febbraio 1997

L’Ensemble di flauti dolci ” Dancerye” composto da giovani strumentisti è nato con l’intento di approfondire l’indagine tecnica e sonora del flauto dolce in rapporto alla corretta prassi esecutiva della musica dal medioevo ai contemporanei, unitamente ad una ricerca di equilibrio e fusione tra i vari strumenti. Grazie all’inconsueta combinazione strumentale, ad un repertorio di non frequente ascolto ed alla assoluta originalità delle interpretazioni, il quartetto è riuscito a ottenere un affascinante impasto sonoro capace di ricreare antiche atmosfere e moderne sensazioni, tali da impressionare favorevolmente sin dagli esordi tanto il pubblico che la critica .

 

GRAZIELLA GUARDIANI

flauto dolce soprano e canto

LUCIANA MATTIOLI

flauto dolce contralto

GIOVANNI TIBERI

flauto dolce tenore

BARBARA PERIN

flauto dolce basso e flauto traverso

barilla97

ERMETICHE ESTENSIONI Mostra personale di Pino Barillà

5 Febbraio - 5 Marzo 1997

La polemica nei confronti della dicotomica distinzione tra volume compatto della scultura e superficie piana della pittura e la conseguente ope­razione di riduzione dell’espressione artistica ad una unitaria qualità morfologica costituiscono il punto di partenza della ricerca di Pino Barillà. Un incontestabile elemento di continuità con le sperimentazioni sintattiche di Castellani e di Bonalumi, alle quali tuttavia il suo lavoro non deve riferirsi in quanto manieristica e stanca reinterpretazione dei codici linguistici ma come dichiarazione di affinità, come necessario ancoraggio per l’avvio di una nuova e personale ricerca espressa dall’artista in tutta la propria autonomia attraverso la pratica dell’autocitazionismo.
Le strutture in corda di Barillà, come elementi appartenenti ad una dimensione inconoscibile della realtà, risolvono in termini spaziali la loro contraddittoria presenza in un contesto oggettivo attraverso la spasmodica ricerca di un rapporto di continuità con l’ambiente esterno.
Animate da uno stato tensionale tutto interiore, le opere sembrano vivere un destino proprio, non attendono statiche di essere contemplate e interpretate.
Nuclei di una percezione sensoriale complessa ed organica, sono esse stesse a interpretare e ad abitare lo spazio.
All’interno delle strutture molteplici vettori dinamici convergono in precise traiettorie e si esprimono in potenti linee-forza che si proiettano drammaticamente verso l’involucro fino a modificarne i confini.
La quiete solo apparente delle superfici scabre, tese e monocrome genera così inquietudine rivelando il moto silenzioso di un’evoluzione lenta e inarrestabile, fatta di tensioni, di torsioni interne, di propagazioni che tendono a determinare un senso di contrazione dello spazio-ambiente. Spazio reso indispensabile alla presenza umana tanto da produrre sul visitatore un senso di profondo disagio che, interferendo in maniera nega­tiva sull’equilibrio del processo cognitivo, rende problematica l’identificazione dell’osservatore con l’oggetto.
In tal modo la percezione del luogo, strutturato dalla presenza delle opere, arriva a trascendere i dati empirici dell’esperienza e della realtà con­creta per approdare decisamente alla paradossale materializzazione di un’estetica metafisica.
Se infatti le immagini di De Chirico riproducono uno spazio pietrificato e un tempo immobile, quali elementi invariabili della rappresentazione di un contesto – luogo dell’incomunicabilità – avverso alla presenza dell’uomo, i “quadri” e le “sculture” di Barillà estendono fino alle estreme conseguenze gli effetti inquietanti di tale visione proiettandoli nello spazio e nel tempo reali.
Queste opere ermetiche, chiuse in un silenzio angosciante, si negano dunque ad una valutazione critica come oggetti in sè conclusi esprimendo più che un linguaggio compiuto di segni un vero e proprio comportamento spazi aIe autonomo.
L’intensità degli stati di tensione tende a comprimere il volume delle strutture: il confine tra interno ed esterno diviene così luogo di massimo conflitto tra forze di segno opposto e complementari che cercano una difficile quanto improbabile integrazione.
Ma è proprio dal rapporto dialettico tra spazialità interna ed ambiente esterno che emergono inequivocabili le aspirazioni architettoniche delle opere di Barillà.
Nè scultura nè pittura, le composizioni volumetriche dell’artista sono assimilabili concettualmente agli esiti dell’architettura in quanto forme capaci di modulare e di modificare le qualità fisiche del contesto.
La serrata scansione verticale dell’incordatura rende vibrante la superficie esprimendo simultaneamente lo stato tensionale delle strutture e le potenzialità delle stesse di propagarsi attraverso e oltre i propri limiti fisici.
Forzando i confini permeabili delle opere, le profonde fenditure praticate da Barillà nella trama compatta dell’incordatura non costituiscono infatti, come i tagli di Fontana, un gesto conoscitivo ma piuttosto la traduzione formale di una propensione delle strutture a compiere l’agognata proiezione di uno spazio – ambiente.
Propensione che si esplicita nell’evidenza dell’ombra, fattore di moltiplicazione spaziaIe capace di restituire all’oggetto un reale senso di conti­nuità con l’ambiente esterno.
L’immersione nella complessa interiorità delle opere è dunque negata all’osservatore che anzi da questa viene investito e respinto come un corpo estraneo.
All’interno dell’approccio conoscitivo si assiste così ad una sorta di inversione delle parti che tende, in ultima analisi, a relegare l’uomo al ruolo passivo di puro spettatore.

Fabio Briguglio

barilla97
carlo bernardini copia

SDOPPIAMENTO DI UN ROMBOIDE Mostra personale di Carlo Bernardini

05 - 15 Febbraio 1997

E’ un pensiero freddo, quasi “silenzioso”, quello che accompagna la ricerca strettamente visiva di Carlo Bernardini. Un progetto compilato a tavolino che contiene un arrovellamento concettuale sull’idea del1’ombra; quel quid immateriale che ha affascinato in maniera e tempi diversi tanti artisti (da Piero della Francesca a Seurat, da De Chirico a Munch) e che ha trovato più recentemente una ricerca coerente, concentrata, più propriamente visiva che non esistenziale o metafisica (la ricerca cinetica e 1’arte programmata negli anni ’60).
Ma, senza dover ricorrere a tendenze collettive, mi viene in mente, in ambito “locale”, il grande Giuseppe Uncini il quale ha dedicato, e ancora sta dedicando, un’intera vita produttiva all’ombra e, forse, un veloce confronto con questo artista potrebbe chiarire in poche battute la assoluta, sostanziale diversità e, perche no, 1’unicita della ricerca di Bernardini.
Se per Uncini 1’ombra è qualcosa di terragno, paragonabile all’uomo, al suo essere costituito d’argilla, di materia, 1’ombra per Bernardini è al contrario una realtà intrigante, ma semplicemente visiva. Un trucco ottico generato dal suo opposto, la luce, che investe le cose, pur essendo l’ombra che ci fa avvertire la sostanza di esse.
Nelle superfici esposte all’ultima Quadriennale, viene sviluppato un dialogo tra queste due essenze incorporee, pur se percepibili ai nostri sensi. Un dialogo che poi produce due diverse condizioni visive: la prima, pittorico ‑ luminosa, quando si fruisce la serie degli otto pannelli a parete sotto la luce artificiale o solare: la superficie emana luce in virtù di velature disomogenee di bianco, stese sopra una superficie di fosforo. La seconda condizione visiva è di ordine virtuale e si realizza quando 1′ opera è fruita in mancanza di luce. E, quanto più la retina si adatta all’oscurità, tanto più 1’immagine luminosa si definisce, diventa leggibile, si amplia. Si realizza dunque una continuità visiva al di fuori della saturazione della luce: un pò come una galassia, invisibile alla luce diuma, ma che si svela man mano che inizia ad annottarsi.
Ecco allora che questo lavoro, come dicevo all’inizio, sostanziato da un pensiero freddo e silenzioso, si carica improvvisamente di una magia intrigante, di un sostrato misterioso, cancellando in un attimo il suo aspetto esclusivamente ottico‑progettuale, finemente escogitato, tra diagonali speculari e tra effetti da negativo fotografico, la dove le velature del bianco non hanno saturato la supericie sottostante, dove qua e la barlugina 1’elemento fosforico.
Con quest’ultimo lavoro, elaborato mediante fibre ottiche illuminate, Bernardini ancora una volta maneggia la luce e 1’ombra come materie e sostanze. Una materiality immateriale che adesso coinvolge una nuova componente; il tempo, che viene colto dai nostri sensi indirettamente: ce ne avverte il mutamento che assume la geometria luminosa nello spazio mentre noi ci spostiamo. Un romboide fatto di luce, come un minaccioso congegno spaziale, sembra alzarsi, abbassarsi, sdoppiarsi, svilupparsi morfologicamente durante la fruizione.
L’opera assume mille volti: diventa il caleidoscopio di se stessa.
In questo nuovo lavoro Bernardini distrugge definitivamente 1’effetto parete, intesa come supporto visivo dell’opera e prende come sfondo ottico lo spazio; trasporta 1’immagine della linea dalla superficie allo spazio tridimensionale, costruendo un corpo architettonico di luce.

Enrica Torelli Landini

carlo bernardini copia
1997 Shaghayegh Sharafi

I GIARDINI DEL TEMPO Mostra personale di Shaghayegh Sharafi

19 Gennaio - 15 Febbraio 1997

“Fragilità e bellezza dell’essere”: al museo d’Arte la mostra di Sharafi

“Fragilità e bellezza dell’essere nel tempo” sono i contenuti, simbolicamente rappresentati, della mostra personale di Shaghayegh Sharafi che viene inaugurata domani, alle 12, nelle stanze del Museo sperimentale d’arte contemporanea. L’installazione è stata creata appositamente dalla giovane artista iraniana per il Museo aquilano e si compone di tre momenti differenti che nelle intenzioni sono il segno dell’inesorabile scorrere del tempo ma anche della bellezza che scopre questo fluire. Nel tessuto della mostra sono manifestate allo stesso tempo la conservazione di elementi antropologici tipici della cultura mediorientale, spiritualità e sacralità del gesto in primo luogo, e la rottura della tradizione operata attraverso l’acquisizione della eredità delle avanguardie artistiche europee. Questo è uno dei punti di interesse della mostra. All’interno della quale si inserisce l’opera di creazione poetica di Toni Maraini il quale ha scritto appositamente per essa un componimento dal titolo “I giardini del tempo” che dell’installazione utilizza i motivi come elementi di ispirazione. Il testo sarà letto durante l’inaugurazione. La mostra resterà aperta fino al 5 febbraio, tutti i giorni dalle 18 alle 20.

G. Fe.

da IL MESSAGERO, sabato 18 gennaio 1997

1997 Shaghayegh Sharafi