Achille Perilli_la tavola di Noe_29su30hi

Perilli Achille

Achille Perilli

Nasce a Roma il 28 gennaio 1927.

Disegna e dipinge frequentando, assieme a Dora­zio, lo studio del pittore Aldo Bandinelli. Fre­quenta il liceo classico, visita i musei, scopre l’arte del ‘900 attraverso gli scritti di Margherita Sarfatti. Con i compagni di scuola, Dorazio e Guerrini, organizza la prima mostra di studenti-pittori ro­mani che si tiene al liceo Giulio Cesare.

Nel 1945 si iscrive alla Facoltà di Lettere; negli anni se­guenti sarà allievo di Lionello Venturi, con il qua­le prepara la tesi di laurea sulla pittura metafisica di Giorgio De Chirico; frequenta anche le lezioni di letteratura contemporanea di Giuseppe Unga­retti.

Nel 1946 incontra Guttuso e inizia a frequentare il suo stu­dio dove conosce Attardi, Accardi, Consagra, Sanfilippo e Turcato.

L’anno dopo partecipa alla redazione del manifesto Forma 1 (firmato oltre che da Perilli, da Accardi, Attardi, Consagra, Dorazio, Guerrini, Sanfilippo, Turca­to) che viene pubblicato sul primo numero della rivista omonima (15 marzo).

In ottobre espone alla prima mostra del gruppo Forma 1 che si tiene nella Galleria Art Club, con dei dipinti che rivelano l’influenza delle opere vi­ste a Praga (nel catalogo il gruppo è presentato da Emilio Villa). Durante lo stesso mese tiene nei lo­cali dell’Art Club una conferenza dal titolo Del formalismo.

A Firenze nel 1951 si apre una succursale dell’“Age d’Or” sul Lungarno delle Grazie; nella stessa città Perilli collabora all’organizzazione di due convegni su “Arte e Architettura”.

Gli artisti dell’“Age d’Or” entrano in rapporto con Ballocco, Burri, Capogrossi e Colla e allesti­scono nei locali della Galleria Origine in Via Au­rora una loro mostra: Tic Tac di Spazio (giugno).

Lucio Fontana invita l’“Age d’Or” a collaborare alla Triennale di Milano: Perilli, Dorazio e Guer­rini realizzano in collaborazione due grandi pittu­re murali, premiate con medaglia d’argento.

Nel 1956 a Parigi conosce Tristan Tzara e frequenta la sua biblioteca studiando materiali inediti sul dadai­smo; frequenta anche la biblioteca Doucet.

Alla Biennale di Venezia del 1958 espone tre opere. Pubblica per le edizioni de “L’esperienza moder­na” Time Capsule 6958, con propri testi e litogra­fie originali.

Inizia a lavorare con la tecnica dell’incisione. Nel corso degli anni realizzerà una serie di incisioni stampate la più parte da Renzo Romero.

Nel 1968 ha una sala personale alla Biennale di Venezia; nel catalogo è presentato da A. Giuliani. Partecipa assieme a Novelli alle contestazioni contro i mec­canismi espositivi della Biennale chiudendo la sala.

All’inizio degli anni 70 espone ad una serie di mostre personali in Italia e all’estero: alla Galleria Marlborough di Roma; alla Galerie Espace di Amsterdam; alla Frankfur­ter Westend Galerie di Francoforte; alla Jacques Baruch Gallery di Chicago con solo opere grafi­che.

Nell’86 espone alla mostra personale al FIAC/Galerie d’Ari International di Parigi. Partecipa alla mo­stra di Forma 11947/1986 al Museo Civico di Gi­bellina.

Nel 1997 vince il “Premio Presidente della Repubblica”.

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Achille Perilli_la tavola di Noe_29su30hi

La Tavola di Noe

acquatinta

tiratura 29/30

 

Notturno sul Treja

Mulas Franco

ritratto1

Nato a Roma nel 1938. Studia pittura all’Accademia di Francia a Roma e alla Scuola d’Arte Ornamentale del Comune di Roma.
La sua prima mostra personale risale al 1967: quadri sulla città nei suoi aspetti di alienante benessere, autostrade domenicali, week-end.
Pur entrando nella tendenza della figurazione oggettiva, Mulas possiede un linguaggio inconfondibile: è affascinato dalla metamorfosi e dalla qualità enigmatica del colore.

“Fra i giovani pittori italiani Mulas è il più inconcepibile in bianco e nero. E questa osservazione tanto più vale a mio avviso quanto più egli ha il coraggio di non temere il confronto, l’ausilio o addirittura l’uso della fotografia nella costruzione di ciò che, soltanto apparentemente, sembra ritagliato con uno obiettivo dal caos della realtà e che a ben vedere, invece, è interamente frutto d’una energica, quanto appassionata fantasticheria” (Antonello Trombadori, dal catalogo della mostra personale alla Galleria “La Sfera”, Modena, 1968). La sua ottica di pittore sembra avere una distaccata obiettività. Ma si tratta di una finta impassibilità, per non perdere un cenno, un attimo, un dettaglio.
Così negli anni successivi, con il ciclo Occidente, sul maggio ’68, (esposti alla Galleria “La Nuova Pesa” di Roma, nel novembre 1969, con testi di D. Micacchi, F. Solmi, G. Cortenova) egli guarda con occhi fissi, senza batter ciglio, lo spettacolo della brutalità e del coraggio, dell’ossessione moderna e della rivolta. Ma il travertino delle scalinate di Valle Giulia è pietra di antiche arene e i poliziotti sono anche guerrieri con elmo e scudo.
“Per potenza immaginativa e figurativa le pitture di Franco Mulas sono le più tipiche e poetiche viste a Roma quest’anno di quella nuova tendenzialità oggettiva, sociale e politica che oggi fa l’originalità, e forse l’avvenire, della ricerca plastica dei giovani artisti italiani in un momento di ricca circolazione europea di idee, di esperienze e di opere d’avanguardia” (Dario Micacchi, dicembre 1969).
“Sono quadri tesi come una pelle di tamburo, lucidi come una pellicola in technicolor, allucinanti come dentro una folgorazione al magnesio” (Mario De Micheli, dal catalogo della mostra personale alla Galleria “Bergamini”, Milano, marzo 1970).
Nel 1972, alla Galleria “Forni” di Bologna, con presentazione di Franco Solmi, Mulas propone i risultati di una riflessione sulla violenza che permea la società e che è allevata nel privato, nel quotidiano, a cui ci si addomestica come ad un gioco, nell’indifferenza generale. Con cinque opere di questa serie, Mulas è invitato alla X Quadriennale di Roma nel 1973.
Quadri del periodo 1967-1969 sono stati esposti alla IV Biennale di Bolzano del 1971; alla mostra Tra Rivolta e Rivoluzione, Bologna, novembre 1972; alla mostra Italienische Realisten 1945-1974, Berlino, ottobre 1974.
Nel 1974 Mulas espone a Roma alla Galleria “La Nuova Pesa”e poi nel 1975 a Firenze
alla Galleria “Santacroce” con presentazione di Fortunato Bellonzi ed infine a Torino alla Galleria “Ricerche”, con presentazione di Antonio Del Guercio, 25 quadri dal titolo: Itinerari; e qui la polemica pittorica con l’Iperrealismo e la Body Art, imperanti in quegli anni, è violentissima.
“Il suo lavoro rifiuta coscientemente di considerare l’immagine d’arte ‘un mero problema di forma’; ed è per tale via, sotto l’urgenza autentica delle cose da dire, che il modo di dirle diventa formalmente ineccepibile, recuperando, insieme con la pienezza del colloquio aperto a tutti, nel termini di un’eloquenza alta e severa, anche il sentimento della storia, della nostra tradizione”. (Fortunato Bellonzi, dal catalogo della Galleria “Santa Croce”, 1975).
Questa ricerca arriva nel 1978 all’opera Autoritratto-Identikit, esposta nel gennaio 1980 alla Galleria ‘IL Ferro di Cavallo-Kunsthalle” di Roma, e poi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Si tratta di quattro autoritratti costruiti con i tasselli dell’Identikit. Ancora le immagini sono pietrificate, con in più, come nota Micacchi nella presentazione alla mostra, un monito riscontrabile nel giustapporsi dei tasselli: “basta un minimo spostamento che la persona non c’è più, risucchiata senza sguardo tra mille altre.”
A sancire una svolta nella produzione di Mulas è la partecipazione alla XXXIX Biennale di Venezia del 1980, nella sezione Architettura con il GRAU, presentando la sequenza di 4 quadri, L’Albero rosso di Mondrian, 1979. La stessa serie è presentata alla mostra Prove di Autori, Pinacoteca Comunale, Ravenna gennaio-marzo 1980.
Nel catalogo della Biennale di Venezia, il GRAU spiega come per Mulas si tratta di una critica alle radici del Movimento Moderno – critica condotta, anche dal gruppo di architetti – con un percorso a ritroso alla riconquista dello spazio pittorico (e non assoluto) e di una naturastoria.
L’interesse a una natura che diventa sognata, simbolica, è approfondito nelle opere esposte a Roma nel 1985. (La montagna d’acqua, La nave di pietra, L’isola, etc.). 
Le sue opere sono il frutto di una paziente opera di ‘costruzione’ pittorica e luministica, dove le immagini emergono da luoghi lontani. Gli avvenimenti si fondono e vengono riportati alla luce tramite un fitto intrecciarsi di ramificazioni di memorie passate.
“Così a ripercorrere l’itinerario dell’artista, si scoprirebbe quanto poco realistico, e tanto meno iperrealistico, sia stato il suo lavoro; che sempre, ai personaggi reali (calati in un concreto e magari banalizzante flusso di cronaca e storia) egli ha sovrapposto un “fantasma ironico o crudele, o pietosamente stravolto: di carne e sangue, e tuttavia trascritto nel simbolo; e cosi interamente da non offrire certezza alcuna, ma piuttosto i segni di oscure ferite della ragione e dell’inconscio… entriamo dunque in questa misteriosa regione.” (R. Vespignani, presentazione alla mostra Finzioni, alla Galleria “Ca’d’Oro”, Roma novembre 1985).
In questi anni Mulas viene invitato ad importanti rassegne tra le quali la Biennale di Milano nel 1984 e nel 1989; la Quadriennale di Roma nel 1986; la mostra Pittura Italiana dal dopoguerra ai nostri giorni, San Paolo e Rio de Janeiro nel 1989.
Nel 1989 gli viene conferito il “Premio Presidente della Repubblica” per la Pittura, dell’Accademia Nazionale di San Luca.
Con il vasto ciclo Big Burg, presentato a Roma, alla Mostra Antologica di Palazzo Braschi, Mulas porta a radicale evidenza dati mentali e culturali che variamente hanno segnato la sua vicenda artistica. Ma un dato caratterizza questa importante fase della sua ricerca: il colore. Un nuovo cromatismo entra nella tavolozza del pittore: “… la vicenda stessa del colore come elemento concretissimo e al tempo stesso emblematico dell’incalzante artificialità del mondo…” (Antonio Del Guercio, dalla presentazione al catalogo della mostra di Palazzo Braschi, novembre 1991).
Nel 1996 viene invitato dal critico Marco Goldin alla mostra Figure della Pittura. Arte in Italia 1956-1968, Palazzo Sarcinelli Conegliano.
Il critico Nicola Micieli ha curato nel 1998 un’importante mostra di Mulas al Palazzo dei Priori di Volterra, dal titolo Dipinti 1980-1998.
Dal 1998 Mulas sta lavorando ad un nuovo ciclo: “Schegge”, esposto nel 2005 alla Galleria Forlenza di Teramo, e nel 2006 all’Ex-mà di Cagliari.
Scrive Roberto Gramiccia nel testo critico in catalogo per la mostra di Cagliari: (…) Il suo ultimo ciclo, quello delle “Schegge”, è ,forse, per potenza, originalità e spericolatezza il più “giovanile” di una carriera ormai lunga e prestigiosa iniziata verso la fine degli anni ’60.
Nel 2011 viene invitato alla 54° Biennale di Venezia-Padiglione Lazio
Nel settembre 2000 è nominato Accademico dell’Accademia Nazionale di San Luca. Vive e lavora a Roma.

 

 

 

 

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Notturno sul Treja

Notturno sul Treja

olio su tavola

84 x 110 cm

2010

 

 

 

L’opera è stata gentilmente donata dall’artista al MUSPAC, per la ricostituzione

della collezione permanente, gravemente danneggiata dal sisma del 6 aprile 2009

 

Tenere aperta la pratica…

Franco Mulas dipinge ormai da più di quarant’anni. E uno si immaginerebbe, non conoscendolo, un signore tranquillo e appagato. Uno che ne ha viste di cotte e di crude. Che ha avuto i suoi successi e i suoi riconoscimenti e che, quindi, oggi passi il suo tempo a gestire tranquillamente la sua piena maturità artistica insistendo sulle cose che gli riescono meglio. E invece no. Mulas non ci pensa proprio alla “pensione dorata del pittore” e si è messo in gioco come un ragazzo.
Il suo ultimo ciclo, quello de le “Schegge”, è,  forse, per potenza, originalità e spericolatezza il più “giovanile” di una carriera ormai lunga e prestigiosa iniziata verso la fine degli anni ‘60 con la prima serie di dipinti che prese il nome di Week-end, seguita dalle opere ispirate al Maggio francese e alla contestazione giovanile e dai cicli “Pitture nere”  e “Itinerari (anni Settanta), dalle serie “Autoritratto Identikit” e dalla sequenza di quattro dipinti con cui nell’80 partecipò alla Biennale di Venezia dal titolo “L’albero rosso di Mondrian”, dal capitolo de le “Finzioni”, da “Big Burg” fino ad oggi.
Se non fosse per una vena cospicua di ironia (e autoironia) continuamente rifornita da una umanità affabile ma cinica, come accade ai romani puro sangue,  Mulas potrebbe passare per un allievo postmoderno di Giordano Bruno, per lo sguardo critico e unitario che riesce ancora a dirigere sul mondo.
Ebbene nella sua pittura l’ironia scompare. Rimane la carica eversiva di chi rappresenta l’esplosione di una realtà che, dietro le apparenze plastificate di una stagnazione apparente, mostra le crepe ingravescenti di un processo di disaggregazione  delle strutture fondanti della società occidentale, delle strutture fondanti del pensiero critico e creativo, della natura stessa colpita nel cuore dei suoi più intimi e imprescindibili equilibri..
Guerre “preventive” e non, azioni e reazioni terroristiche, catastrofi naturali di portata enorme facilitate dalla politica temeraria e improvvida delle grandi corporation, rischi di pandemie simili alla peste del Manzoni, fughe e migrazioni epocali dalla miseria e dalla morte e quant’altro è inevitabilmente connesso con le dinamiche perverse di questi processi distruttivi producono, inoltre, conseguenze incalcolabili in termini di immiserimento morale e di annichilimento delle coscienze, rese ancora di più spiritualmente patogene dalla influenza narcotizzante dei media.
Le schegge di questo mondo Franco Mulas dipinge. E la sua pittura non può avere cedimenti  perché, come negli anni ‘60 e ’70, è sostenuta oltre che dall’esercizio di un “nobile mestiere”, da una tensione etica senza esitazioni. Naturalmente l’artista non è  un agitatore politico. Non è un propagandista, né un illustratore. I suoi non sono, ne possono (né debbono) essere comizi.
Mulas usa i colori ad olio su tavola come gli antichi maestri. Come gli antichi maestri dipinge  paesaggi. Ma i suoi paesaggi sono diversi da quelli di Corot o di Segantini, perché pur attingendo dalla realtà, di essa non aspirano a dare una rappresentazione mimetica, se non nell’utilizzo dei colori del contemporaneo. Questi colori sono tratti da un mix di sollecitazioni retiniche che provengono da una natura “sporca” e contaminata e dall’enorme “reservoir” delle immagini digitali della pubblicità e dell’ipercomunicazione. “Per raccontare il dramma del paesaggio – mi dice Mulas – uso delle nuance di colore impensabili ai tempi dei grandi pittori di natura di fine Ottocento, ma che un bambino di oggi che passa ore davanti al computer o alla televisione percepisce come naturali”.
Per il resto egli non dipinge case, prati, montagne, fiumi o ponti, cartelli pubblicitari, campi di calcio, oggetti di consumo, figure, immagini digitali accattivanti o ripugnanti. Non dipinge queste cose ma tutte queste cose, ugualmente, sono dentro la sua pittura fintamente astratta, che raccoglie in se la forza e la velocità del gesto, centrifugando gli elementi costitutivi di una realtà naturaltecnologica che tende ad autodistruggersi. Per questo – la cosa ami ha assai colpito – Mulas parla di “dramma del paesaggio”. Perchè in esso c’è, “riassunta” metaforicamente, la crisi profonda del nostro tempo.
La velocità di esecuzione e la rappresentazione stessa della velocità, resa magistralmente con l’uso del “fuori fuoco” e del “fuori registro” che alludono alle quadricromie della stampa e con la pratica istintiva della rasoiata pittorica e del colpo di spatola, fanno pensare a una riedizione del dinamismo plasitico futurista (viene in mente “La città che sale” di Boccioni). Ma mentre per i Futuristi la velocità testimoniava  i trionfi di un’immancabile, elitaria e superiore civiltà meccanica, per Mulas la velocità è quella della dissoluzione, del vortice, del mulinello che alza la polvere delle rovine di una civiltà che stiamo perdendo. “Voglio dipingere velocemente la velocità, la frantumazione del mondo, della società” dice l’artista romano che ha negli occhi la scintilla di chi non si rassegna ad essere uno spettatore passivo.
Se c’è un errore da evitare nell’accostarsi all’opera di questo autore è quello di abbandonarsi ad una lettura della sua pittura emotivamente consegnata alle lusinghe del policromatismo e del gesto (di sorprendente virtuosismo tecnico). Mulas è un virtuoso. Ma non vuole essere e non è solamente questo. E ove si osservino le sue “Schegge” con l’attenzione che fa del fruitore un complice sensibile ((un co-autore), si avverte un piacere e un disagio insieme. Una cosa che ti prende allo stomaco. Un pugno sferrato senza alcuna concessione alla retorica e alla propaganda. Questa sensazione è il segno che l’obiettivo è stato raggiunto.
Per molti anni si è detto che la caduta delle ideologie ci avrebbe dischiuso orizzonti immancabili di pace e di progresso. Non è stato così. La pittura di Mulas, oltre ad intrattenere in se il bene della qualità, una cosa almeno ce la insegna: che bisogna rimanere svegli, svegli nella ricerca e liberi nel giudizio. L’ideologia di una nuova intelligenza critica che riscopra il gusto di coniugare etica ed estetica, senza atteggiamenti bacchettoni ed arroganti, ma con la forza del lavoro e l’umiltà orgogliosa che deriva dalla consapevolezza di appartenere ad una nobile tradizione è quella che Mulas, con il suo lavoro, ci propone.
Per un artista di valore il mercato, la tecnologia, la mondanità vengono dopo o non vengono proprio. Quello che conta è mantenere dritta la barra senza tentennamenti, aggiungendo, quando è possibile, anche solo una virgola alla storia dell’arte, alla storia dell’uomo. Questa cosa è obiettivamente progressiva (una volta si sarebbe detto rivoluzionaria) ed importante perché contribuisce a  mantenere aperta una questione a cui Mulas, crediamo, tiene molto: non ratificare la fine della storia ma tenere aperta la pratica, magari…in attesa di tempi migliori. Mulas il suo contributo lo sta dando. E noi gliene siamo grati.

Roberto Gramiccia

2006

 

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Griffa Giorgio

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Nato a Torino il 29 marzo 1936, è un pittore italiano, tra i principali e più originali esponenti della ricerca pittorica contemporanea dagli anni ’60 ad oggi. Inizia a dipingere ancora bambino e riceve i primi insegnamenti dai pittori tradizionali che all’epoca frequentavano il Circolo degli Artisti, antica istituzione torinese. Nel 1958 consegue la laurea in giurisprudenza e da allora esercita la professione d’avvocato. Dal 1960 al 1963 è allievo di Filippo Scroppo, pittore astratto nonché docente all’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino, collaboratore di Felice Casorati e membro del Movimento Arte Concreta o MAC. Tuttavia solo a metà degli anni ’60 nei quadri figurativi di Griffa iniziano a comparire elementi astratti che sanciscono l’avvio di quelle riflessioni sullo statuto della pittura, sugli strumenti del dipingere e sulla posizione dell’artista che porteranno al ciclo dei “segni primari” con cui ha inizio l’impronta inconfondibile della suo percorso pittorico. Saranno proprio i quadri dei “segni primari” a porlo tra i protagonisti del dibattito di quegli anni che si sviluppa sulle ceneri dell’informale e si snoda attraversando la pop-art americana e l’arte concettuale. In quel periodo, tra l’altro, su stimolo di Aldo Mondino viene in contatto con l’opera di Giulio Paolini che lavorava alla scissione delle diverse componenti dell’oggetto artistico: un percorso differente ma con evidenti punti di contatto. Inoltre l’approdo di Griffa alla Galleria Sperone a fine anni ’60 lo pone in più forte relazione con una serie di artisti alla cui opera viene attribuita l’etichetta di Arte povera, tra cui, in particolare, diventano per Griffa interlocutori significativi Giovanni Anselmo, Gilberto Zorio e Giuseppe Penone. Naturale alleato per poetica e ideologia sarà anche Marco Gastini: un intreccio forte tra i loro lavori è testimoniato da una mostra nel 1972 alla Galleria Fiori a Firenze “pensata” e allestita insieme. Dal 2007 è tra i novanta accademici nazionali dell’Accademia di San Luca di Roma. Nonostante sia stato associato a movimenti come l’Arte Povera la Pittura Analitica o il Minimalismo, il percorso artistico di Giorgio Griffa rimane tuttavia per lo più solitario e non inquadrabile in una corrente specifica. Dagli esordi della sua personale formula di pittura sono passati ben più di 40 anni, ma Griffa prosegue sulle sue orme originali di pittore con continuità e coerenza, vitalità e poesia, sempre a Torino, dove vive e dipinge tuttora. A molti anni di distanza dalla sua prima mostra negli Stati Uniti nel 1970 presso la galleria di Ileana Sonnabend a New York, a dicembre 2012 una sua personale Fragments 1968 – 2012 alla Casey Kaplan gallery sempre di New York, lo ha portato a essere menzionato come una delle «10 riscoperte più emozionanti dal 2012»[1]. Nella sua recensione della mostra, la critica d’arte americana Roberta Smith ha scritto sul The New York Times: «La sua arte merita un posto nella storia mondiale dell’astrattismo».

 

Info tratte da Wikipedia

 

 


Griffa Giorgio_senza titolo_litografia 60-100_21x30cm_web

Senza Titolo

litografia 60/100

21 x 30 cm

 

Frammenti per una cronologia DiGiugnoStanislao

Di Giugno Stanislao

STANISLAO Di GIUGNO suo profilo

Nato nel 1969 a Roma (IT), dove attualmente vive e lavora.

La sua pratica coinvolge installazione, scultura, collage e negli ultimi anni è stato interamente indirizzato alla pittura.

L’artista è interessato ad esplorare le caratteristiche fisiche dei materiali, prestando attenzione a caratteristiche come volume, forma e dimensioni. 
Il risultato consiste in forme astratte e geometriche che informano la sua immaginazione, per essere poi utilizzate in modo ripetitivo.

I suoi lavori sono stati esposti presso:

MACRO Testaccio, Roma, Italia (2012), Istituto Italiano di Cultura, Hammer Museum e Laxart, Los Angeles, CA (2011), Sammlung Lenikus in Wien. 
Dal 2014 è membro del collettivo “Non c’è posto come a casa”, la cui missione è lo sviluppo della conoscenza dell’arte contemporanea, attraverso mostre organizzate in luoghi non convenzionali.

Mostre personali

2009 LandEscape, Galleria Tiziana Di Caro, Salerno; 2008 Luogo comune, con Alessandro Piangiamore, Galleria Tiziana Di Caro, Salerno; 2005 Reverse Angle, L’Union Arte Contemporanea, Roma, curata da Lorenzo Benedetti ed Emanuela Nobile Mino.

 


Frammenti per una cronologia DiGiugnoStanislao

Frammenti per una cronologia 
#1, #2, #3, … … … …..#20

spraypaint on folder paper

33,5 x 24,5 cm

2009

 

 

L’opera è stata gentilmente donata dall’artista al MUSPAC, per la ricostituzione

della collezione permanente, gravemente danneggiata dal sisma del 6 aprile 2009

 

“La serie prende forma progressivamente usando diversi fogli A4  che vengono piegati seguendo le linee determinate dalla dimensione stessa  dei fogli. Ad ogni piega si creano 2 successive possibilità, in una successione dicotomica limitata ma vastissima. Ho realizzato solo alcune delle molteplici combinazioni possibili, riservandomi il piacere di aggiungerne nuove  in momenti successivi.
Questi lavori su carta hanno il sapore di vecchie fotocopie e indagano allo stesso tempo il limite tra pittura e scultura, tra rigore e caso”.

Stanislao Di Giugno 
ottobre 2011

Opera Laura Cionci

Cionci Laura

Laura Cionci foto profilo

Nata a Roma nel 1980, frequenta l’Accademia di Belle Arti di Roma con Gino Marotta e si specializza nel corso di decorazione con Margareth Dorigatti nel 2008. È assistente di Lidia Reghini di Pontremoli ordinario della cattedra di Antropologia Culturale, Accademia di Belle Arti di Roma.
Restauratrice dal 1998 e Decoratrice, a Roma promuove “l’affresco digitale” che utilizza oltre che nella decorazione anche nelle sue opere. Inizia il suo percorso artistico tra collettive e concorsi nel 2001. Selezionata per il corso di imprenditoria artistica indetto dal Modigliani Institute in collaborazione con il BIC Lazio. La sua prima personale inaugura allla galleria”Le Opere” a Roma dal titolo “Tu vedi, io passo”,un lavoro introspettivo sulle carte da gioco francesi.
Continua la sua ricerca con i “Bianchi non riusciti” lavori presentati alla sua personale “White not?” al Loft 27 a San Lorenzo a Roma. A Ottobre partecipa alla collettiva “Nigredo” svolta all’Ex-Lavanderia a Roma a cura di Lori Adragna Micol Di Veroli e Barbara Collevecchio. A gennaio del 2010 partecipa al convegno “La formazione accademica dei giovani aristi di oggi” svolto presso il Museo Archeologico Nazionale di Villa Frigerj di Chieti presentando il lavoro delle carte da gioco.

 


Los Adoquines_Frame video Laura Cionci

Adoquines

video

2011

 

Opera Laura Cionci

Los Adoquines

2011

 

 

L’opera è stata gentilmente donata dall’artista al MUSPAC, per la ricostituzione

della collezione permanente, gravemente danneggiata dal sisma del 6 aprile 2009

 

“Quando tutto sembra perduto, l’istinto di sopravvivenza prende il sopravvento. Quello che nasce dopo la tempesta è più forte, più vivo e più resistente di prima.
Ma ci vuole energia e uno slancio verso l’altro.
Una festa potrebbe aiutare. Un carnevale sarebbe perfetto. Un carnevale che duri tutto l’anno e che venga utilizzato per comunicare prepotentemente con la gente anche a lunghe distanze, che aiuti le persone a sorridere, ad essere nuovamente felici.
Los Adoquines arrivano a L’Aquila nel 2009 regalandosi al cuore di un deserto di sassi.
Non è un caso che si chiamino adoquines che in spagnolo significa sanpietrini.
Una ricostruzione in primis dell’animo, del sentimento e dell’amore verso il prossimo.
Ma questa è l’indole del fenomeno della murga: nasce a carnevale, per le strade e viene usato come mezzo di protesta e di comunicazione sociale. Anche per un solo istante, ogni uomo ha la necessità di esprimersi gridando, ballando, suonando, cantando.
Inconsapevolmente tutte le persone che si trovano a L’Aquila (nello specifico al MU.SP.A.C) fanno parte di quel gruppo aperto che balla per la città e si fa sentire.
Tra le danze dei ballerini si affacciano ulteriori ombre. Inizialmente non ballano, non vanno a tempo ma subito sono consapevoli di far parte di qualcosa che si esprime e lo fa per trasmettere l’importanza della sofferenza, della perdita, della vita, della rinascita.
Le pelli delle percussioni vibrano con forza come a voler far arrivare il suono oltre le montagne, il mare, le città.
Un cilindro colorato si sistema sulla testa di chi lo guarda.
Ci siamo tutti, siamo tutti qua e soprattutto saremo sempre presenti. La memoria non ha tempo e le sinergie che nascono rivelano quel nobile stato d’animo che ancora prima delle macerie era crollato, sotterrato, ridotto a brandelli. Queste unioni nate, sono infinitamente più resistenti di qualsiasi  struttura architettonica”.

Laura Cionci 
ottobre 2011