2 Giugno - 15 Luglio 1994
Si parla di dimensione estetica come di qualcosa che allarghi l’orizzonte dell’arte, entrando nella vita; in questo senso tutti optiamo per una “nuova dimensione estetica “anche se non sappiamo in realtà come sia definibile. Siamo tutti d’accordo anche su un’altra constatazione: i nuovi valori debbono manifestarsi per una via che sia più vicina all’esperienza in atto, al processo nel suo farsi che non al processo compiuto ed oggettivato. Questi problemi si possono storicizzare forse, non per parlare di essenza dell’arte ma di uno dei meccanisrni costitutivi dell’operare artistico, il processo creativo. Oggi dunque la produzione artistica mette decisamente a nudo l’elemento processuale, cioè il problema del divenire, al di fuori di ogni mitizzazione. Il processo quindi che si verifica nell’opera d’arte non è più la riproduzione, la mimesi alchimistica che si appoggi ad una idea mitica la quale a sua volta si rifletta in una struttura sociale, ma è una pura metafora del divenire, al di fuori del mito, al di fuori quindi di un principio di ordine. Ci troviamo fatalmente ad essere coinvolti quasi in una sorta di azione di recupero delle idee, non perchè l’arte possa avere forza di agire in modo diretto sulle strutture della società, ma per la sua forza indiretta, che non solo propone, ma semmai sottolinea, si propaga e si insinua nelle coscienze. Le opere delle tre artiste aquilane mi sembra abbiano in comune questa tendenza alla ricerca appunto dell’arte come alchimia, come cabala, quale illusione di una trasmutazione, frutto di sperimentazione tuttavia del tutto personale, quanto alle immagini, alle tecniche ed al “pattern” che indiscutibilmente proviene dalle opere di ciascuna di esse. Lilly Brewver nel riempire la tela con striscie di colore, segni concentrici, supporti a forma di triangoli a losanghe, sembra voler conservare qualcosa del dinamismo visivo di vaga ascendenza post futurista; nelle ultime opere ella inserisce implicazioni scultoree, sicché le immagini sembrano scrutare la profondità del colore, le impressioni dei segni, le sovrapposizioni metalliche. Nella sua ricerca non è azzardato dire che è implicita una filosofia molto simile, anche se non proprio identica, a quella del gruppo di scultori che divennero poi noti col nome di minimalisti. Francesca Falli nelle sue tele totemiche accumula forme a segni quasi sacrali. La sua ricerca sembra venire da lontano e scaturisce certamente da una accumulazione di tutti i possibili contesti temporali nei quali puo verificarsi il fatto artistico. La sacralità del segno assume quasi ruoli angosciosi, specie nelle grandi tele nere e argento, simboli immanenti delle terribili lacerazioni e violenze cui assistiamo ormai da tempo dolorosamente impotenti. Nelle opere di Germana Cicolani, una delle componenti logiche della sua creazione, è quella di ricollegarsi con immediatezza alla straripante invasione della tecnologia che ci circonda e rischia di sopraffarci; ella tuttavia demitizza la contemporaneità tecnologica appunto, usandola al contrario con associazione di segni ed immagini che scopre nel momento stesso in cui le esegue attraverso l’uso del computer. Spesso nei suoi “combines” ritroviamo anche la nozione del riciclaggio e della riutilizzazione grafica di quei “modi” della pittura post informale realizzata tuttavia con i mezzi tradizionali. Modalità comuni per accostarsi alla contemporaneità, da parte delle tre artiste. Quasi una cospirazione culturale, una sorta di affascinante congiura nei confronti di chi è costretto, nel guardare le loro opere, a pensare.
Bernardino Marinucci