12 - 19 Aprile 1994
Baltasar Gracian nella massima 153 del suo “Oracolo manual y arte de prudenza” avvisa: “Ci si guardi dall’entrare a colmare grandi vuoti… è difficile colmare un grande vuoto, perché il passato appare sempre migliore del presente”. Così la tradizione del pensiero occidentale ci ha abituati all’idea del vuoto come condizione negativa e all’idea del pieno come condizione positiva. E’ difficile colmare un grande vuoto, ma perché colmarlo? Ci si sente bene quando ci si sente pieni. Difatti la condizione di svuotamento è denotativa del malessere o della confusione. Per evitare la perdita dell’orientamento, che generalmente genera la paura e il terrore, si farà ricorso a dei punti fissi, come delle idee fisse, che ci eviteranno il senso della vertigine e della caduta. Martin Heidegger nei suoi Holzwege è stato chiaro: “L’espressione: “Avere un’idea fissa di qualcosa” significa anche: essere al corrente, esser pronto per orientarsi nella cosa. Una delle idee fisse del pensiero occidentale consiste nella necessità di riempire il vuoto perché solo nel riempimento si eviterebbe il rischio e la conseguente caduta del peso verso un centro di un vuoto che tutto inghiotte e tutto confonde. Questo spiega la quasi totale preferenza per l’origine e non per la fine. Infine, allora, la preferenza per il big bang piuttosto che il big crunch. La definizione di luna nuova al posto di luna vuota è indicativa di una cultura che tende a rimuovere anche nelle sue definizioni l’incapacità di affrontare la paura della caduta libera, delle mancanze del pieno. Il grande vuoto è la presenza-presentata di perdita del centro e di ogni punto di riferimento. Al di sopra senza un tetto per la testa, al di sotto senza un dito di terra dove poggiare il piede. In breve, l’arte di questo secolo, a partire dalle contemporanee spinte date dallo Scolabottiglie di Marcel Duchamp e del Quadrato Nero di Kasimir Malevitch, ha reso impraticabile la dicotomia pieno/vuoto perché nei suoi più che presunti azzeramenti ha indicato il dietro dell’opera come non origine ma come qualcosa dietro cui non vi è più nulla cui possa essere ricondotta.
Antonio D’Avossa