05 - 15 Febbraio 1997
E’ un pensiero freddo, quasi “silenzioso”, quello che accompagna la ricerca strettamente visiva di Carlo Bernardini. Un progetto compilato a tavolino che contiene un arrovellamento concettuale sull’idea del1’ombra; quel quid immateriale che ha affascinato in maniera e tempi diversi tanti artisti (da Piero della Francesca a Seurat, da De Chirico a Munch) e che ha trovato più recentemente una ricerca coerente, concentrata, più propriamente visiva che non esistenziale o metafisica (la ricerca cinetica e 1’arte programmata negli anni ’60).
Ma, senza dover ricorrere a tendenze collettive, mi viene in mente, in ambito “locale”, il grande Giuseppe Uncini il quale ha dedicato, e ancora sta dedicando, un’intera vita produttiva all’ombra e, forse, un veloce confronto con questo artista potrebbe chiarire in poche battute la assoluta, sostanziale diversità e, perche no, 1’unicita della ricerca di Bernardini.
Se per Uncini 1’ombra è qualcosa di terragno, paragonabile all’uomo, al suo essere costituito d’argilla, di materia, 1’ombra per Bernardini è al contrario una realtà intrigante, ma semplicemente visiva. Un trucco ottico generato dal suo opposto, la luce, che investe le cose, pur essendo l’ombra che ci fa avvertire la sostanza di esse.
Nelle superfici esposte all’ultima Quadriennale, viene sviluppato un dialogo tra queste due essenze incorporee, pur se percepibili ai nostri sensi. Un dialogo che poi produce due diverse condizioni visive: la prima, pittorico ‑ luminosa, quando si fruisce la serie degli otto pannelli a parete sotto la luce artificiale o solare: la superficie emana luce in virtù di velature disomogenee di bianco, stese sopra una superficie di fosforo. La seconda condizione visiva è di ordine virtuale e si realizza quando 1′ opera è fruita in mancanza di luce. E, quanto più la retina si adatta all’oscurità, tanto più 1’immagine luminosa si definisce, diventa leggibile, si amplia. Si realizza dunque una continuità visiva al di fuori della saturazione della luce: un pò come una galassia, invisibile alla luce diuma, ma che si svela man mano che inizia ad annottarsi.
Ecco allora che questo lavoro, come dicevo all’inizio, sostanziato da un pensiero freddo e silenzioso, si carica improvvisamente di una magia intrigante, di un sostrato misterioso, cancellando in un attimo il suo aspetto esclusivamente ottico‑progettuale, finemente escogitato, tra diagonali speculari e tra effetti da negativo fotografico, la dove le velature del bianco non hanno saturato la supericie sottostante, dove qua e la barlugina 1’elemento fosforico.
Con quest’ultimo lavoro, elaborato mediante fibre ottiche illuminate, Bernardini ancora una volta maneggia la luce e 1’ombra come materie e sostanze. Una materiality immateriale che adesso coinvolge una nuova componente; il tempo, che viene colto dai nostri sensi indirettamente: ce ne avverte il mutamento che assume la geometria luminosa nello spazio mentre noi ci spostiamo. Un romboide fatto di luce, come un minaccioso congegno spaziale, sembra alzarsi, abbassarsi, sdoppiarsi, svilupparsi morfologicamente durante la fruizione.
L’opera assume mille volti: diventa il caleidoscopio di se stessa.
In questo nuovo lavoro Bernardini distrugge definitivamente 1’effetto parete, intesa come supporto visivo dell’opera e prende come sfondo ottico lo spazio; trasporta 1’immagine della linea dalla superficie allo spazio tridimensionale, costruendo un corpo architettonico di luce.
Enrica Torelli Landini