La mostra del giovane artista Massimo Piunti, allestita negli spazi del Muspac, in via Paganica 17, ha ottenuto un grandissimo successo di pubblico, soprattutto giovanile, che entrando negli spazi del museo si è trovato come dinanzi ad un giardino Zen. Le bellissime installazioni di Piunti sono l’espressione di una grande sensibilità artistica che attraversa un vasto orizzonte di significati. La prima allude ad un campo di grano formato da sottili canne di bambù alle cui estremità sono attaccate delle foglioline dorate che come nella tradizione della “optical art” sembrano produrre una sottilissima vibrazione. Questo campo, avvolgente l’architettura del Museo, deve essere scoperto con gli occhi e con la mente, rimanda all’idea dell’ hortus conclusus , del paradiso perduto. L’uso delle foglioline di color giallo oro, posizionate sulle leggere canne che con un atteggiamento “minimalista” sono perfettamente allineate, sembrano riproduce l’alchimia di una sensibilità decorativa di klimtiana memoria. La seconda installazione, in una linea di perfetta coerenza linguistica con altre opere esposte, riproduce l’incantesimo di un’isola vicina o lontana, sulla cui spiaggia il mare porta alla deriva “segni”, oggetti a reazione poetica o forse detriti e scarti di una società dei consumi, che un remoto Robinson o un futuro Tom Hanks sarà ancora costretto a decifrare. Un sottofondo casuale di “suoni – rumori”, musiche e lingue di popoli diversi, (rumori a bassa frequenza emessi da una radio), formano una babele dei linguaggi fondendosi continuamente: sono elementi di una società multiculturale che ha accorciato le distanze fra i popoli e fra le varie aree geografiche. Significati e unità di senso si mescolano di continuo dandoci la sensazione di un viaggio della memoria in cui l’oriente s’incontra con l’occidente, la cultura locale con quella internazionale. Questa deriva fatta di terra e sabbia, tagliata e segnata da una strada, un percorso, evidenziato da due fili su cui sono appese lampadine a basso voltaggio, (forse luminarie di una festa popolare), ci sposta nel luogo dell’arte, in una scena teatrale deserta. Entrando nell’opera ci troviamo nello spazio del sogno, è come attraversare un “ponte” illuminato da luci fioche. Dall’alto, da un punto di vista privilegiato, che è ancora quello dell’arte, sembra riemergere un nuovo mondo, una seconda realtà. L’arte di Massimo Piunti produce questa sorta di stordimento, di spaesamento, si sposta continuamente in una linea intermedia tra la veglia e il sogno. In questo mondo fantastico, evidenziato anche nei suoi quadri, o meglio nelle sue scatole magiche, affiorano i ricordi della nostra infanzia. Con un’opulenza espressiva vengono messi in scena personaggi del circo, del teatro, ed ancora marionette, antiche foto, oggetti della memoria: tutti elementi di un decorativismo barocco, metafisico e surreale, di tipo felliniano. In altri piccoli quadretti, concepiti come piccole finestre che si aprono verso prospettive fantastiche della terra d’Abruzzo, si può intravedere la stessa sensibilità degli acquerelli di Folon oppure immaginare paesaggi orientali vicini alle inquadrature ed ai campi lunghi di Kurosawa. Da queste prospettive di paesaggi collinari, da queste visioni di sacre montagne, semi di piante ancora legati alla terra, come la fantasia dell’artista, si preparano a volare in alto nel cielo della poesia. Per questo grande senso scenografico e teatrale, per la calligrafia dei disegni vicina a quella di Paul Klee e simile a partiture musicali, questa mostra merita di essere visitata. In questo spazio della creatività, in queste infinite possibilità offerte dalla sperimentazione artistica, possiamo immergerci per conoscere e ritrovare territori mentali e culturali, troppo spesso ignorati dall’ottusa pigrizia di una società senza senso.
Enrico Sconci
Senza titolo
disegno su carta