Franco Angeli nasce a Roma nel 1935 da famiglia di umili origini e solida tradizione socialista e antifascista. Il nome di battesimo è Giuseppe, in arte Franco. Terzo di tre fratelli, non porta a termine gli studi elementari a causa della guerra.Nel 1941 causa la morte del padre, Angeli è costretto a provvedere alla madre malata, inventando i lavori più disparati: porta carretti al mercato, diviene ragazzo-spazzola presso un barbiere, lavora in una lavanderia, infine in un’ autotappezzeria. Dì lì, secondo Gino De Dominicis, nasce l’uso delle velatine. Le calze, presenti nei primi quadri, sono spesso regalate da amiche. Ottimo tappezziere, generalmente prepara da sé le tele dei quadri. Non frequenta scuole di pittura e nel 1949 Muore la madre, evento che lo segna profondamente. Il fratello Otello, futuro segretario del Partito Comunista di Cinecittà, lo educa secondo precisi orientamenti politici. Nel 1957 nascono i primi lavori: l’esigenza di dipingere esplode come affermazione di libertà. Il bombardamento di San Lorenzo, a cui assiste quale testimone lo turba profondamente, improntando la futura pittura dove, con l’uso di materiali come garze e cromatismi rosso cupo denunciano un forte debito verso Burri. Nel 1950 Franco Angeli ha la prima collettiva, alla Galleria La Salita, di Roma, con Festa e Uncini. Nel 1960 è la sua prima personale, alla Galleria La Salita. Il fratello Otello organizza il Premio di Pittura Cinecittà, dove un monocromo dell’artista, su tela di iuta, viene rifiutato della commissione composta, tra gli altri, da Guttuso, Trombadori e Del Guercio. Opere quali Accattoni, di quell’anno, denotano tangenze con la poetica dell’informale. Nel 1961/62 partecipa con Lo Savio, Festa e Schifano alla mostra Nuove prospettive della pittura italiana, a Palazzo Re Enzo di Bologna. Diviene amico di Schifano, conosciuto nella sezione del partito: li accomuna l’estrazione popolare, il senso radicato della realtà, l’esigenza di andare oltre le esperienze informali. Si tratta di una generazione di artisti unita da uno stretto legame esistenziale segnato dalla guerra: vengono definiti maestri del dolore, una qualifica che li distanzia dall’Arte Pop, alla cui estraneità fa riferimento una lettera autografa dello stesso Angeli. Negli anni successivi diviene poi amico di Renato Guttuso e poi di Arnaldo Pomodoro e del poeta Francesco Serrao. Nel 1963 alla Galleria J di Parigi, le sue opere sono di fianco a quelle di Bruce Conner, Michael Todd, Christo e Kudo: catalogo a cura di Pierre Restany. Alla Galleria La Tartaruga, in Piazza del Popolo, partecipa ad una storica collettiva: 13 pittori a Roma. L’opera di Angeli è glossata da un testo poetico di Nanni Balestrini. Nel 1964, alla Galleria L’Arco di Alibert, di Roma, presenta Frammenti capitolini: si tratta di lupe, aquile, frammenti di simbologia collettiva. Partecipa alla Biennale di Venezia, presentato da Calvesi: è la storica Biennale della Pop Art in Italia. L’artista presenta La lupa e Quarter Dollar. Nel 1965 è invitato alla nona Quadriennale romana: di questo periodo sono i Cimiteri partigiani, corredati di stelle e falci e martello. Nel 1967 è presente alla Biennale di San Paolo del Brasile con Half dollar: il famoso mezzo dollaro, zoomato nei particolari. Negli anni 1968/70 vi è un grande impegno politico e ideologico, che lo vedono impegnato sul tema della guerra del Vietnam. Conosce Marina Ripa Di Meana, in occasione del Festival di Spoleto. Con la donna intreccia una tumultuosa relazione poi sfociata in fedele amicizia. E’ lei in più occasioni a rimarcare dell’artista il lato profondamente umano, la creatività svincolata da ogni logica di mercato, la vita bohemien costellata di debiti, il desiderio di morire giovane, non toccato dal cinismo che le delusioni e i disinganni inducono nel tempo. Nel 1972 Franco Angeli presenta alcuni interessanti lavori alla Galleria Sirio per la rassegna Film. Comincia ad apparire nella sua produzione il volto di Marina Ripa di Meana, in concomitanza con i temi dell’aereo, degli obelischi, dei piccoli paesaggi. Espone alla X Quadriennale di Roma. Nel 1975 Conosce Livia Lancellotti, che diviene sua compagna e gli darà, nel ’76 una figlia, Maria. Diviene amico di Jack Kerouac, raccolto sanguinante da un bar da cui viene espulso ubriaco. Ospitato nello studio di via Germanico, si cimenta con l’artista nella composizione di un’opera La deposizione di Cristo, poi acquistata da Gian Maria Volonté. Nel 1978 partecipa alla Biennale di Venezia, curata da Bonito Oliva nella sezione L’iconosfera urbana. Vi presenta anche un cortometraggio. Nel 1981 Angeli viene invitato con alcuni disegni, accanto a Dorazio, De Chirico, Fontana, Guttuso, Maccari, Modigliani, Morlotti, Pozzati, e altri, ad una collettiva presso la Galleria La Scaletta di Reggio Emilia. Nel 1982 partecipa alla collettiva 30 anni d’arte italiana 1950-80, organizzata a Villa Manzoni, Lecco. Compone opere improntate all’influenza di Kees Van Dongen (Pensando a Van Dongen).
Con il 1984 comincia l’epoca delle Marionette, sorta di autoritratto ironico dell’artista, poi esposte al Belvedere di San Lucio. Nel 1986 partecipa alla XI Quadriennale romana. Nel 1988 gli viene dedicata una retrospettiva alla Casa del Machiavelli (1958-72) nei pressi di Firenze. Presentato da Marisa Vescovo, espone alla Galleria Rinaldo Rotta di Genova. Viene invitato al Circolo Culturale Giovanni XXIII per la Biennale di Arte Sacra: con lui, Enzo Cucchi, Sandro Chia, Mimmo Paladino e Mario Schifano. Nello stesso anno, Franco Angeli muore di Aids all’età di 53 anni. Il funerale si celebra nella Chiesa di Santa Maria del Popolo, scelta dalla compagna Livia per l’amore sconfinato dell’artista nei confronti di Caravaggio (uno degli altari è infatti sovrastato da La conversione di Paolo)..
Metafisici
Cassetta con 20 litografie
160 x 115
1980
L’opera, realizzata nel dicembre 1980, è composta da n. 20 litografie originali numerate e firmate a mano dall’artista da 1/50 a 50/50 e n.10 prove d’artista. Calcografia Studio San Giovanni Valdarno.
Angeli appartiene alla generazione della non violenza, la sua ideologia è la non violenza e i suoi dipinti la riflettono. Ne sono qui raccolti alcuni notevoli, in un panorama che ricapitola praticamente gli anni sessanta, di cui Angeli è stato protagonista escludendo le più recenti esperienze, che sono diverse ed aprono un nuovo momento. E’ una pittura, o almeno lo è stata, che nega: nega la violenza e nega la rappresentazione, privilegia il simbolo e ne esaspera il mutismo. Una tavolozza accesa e senza velature, come sapevamo Van Gogh, i futuristi, gli espressionisti, è adatta ad esprimere violenza; spenta e velata esprimerà l’opposta. Il velo respinge l’immagine fino ai limiti dell’assenza e su quella soglia la trattiene, snervata dell’astio, del rancore, dell’ironia che pure la caricava. E’ l’operazione antiviolenza che si sovrappone a simboli, non di rado, di violenza, rapacità, possesso. In uno dei suoi dipinti che più conquistano, a rivederli il simbolo è dipinto sopra la garza, ha la sua forza di venir fuori e di rapprendersi; é una croce, quasi un Malevic passato attraverso l’informale, un simbolo riscoperto in una stratificazione di valori che partendo di lontano ci imprigionano nel loro brusio. La croce del Vangelo, la croce dei cimiteri, la croce dell’esistenza, la croce a un bel momento intravista, Così come, a un certo punto, A. intravede, e quasi ingentilisce la rossa falce e martello. Valori che si scoprono, valori che si sovrappongono, valori che si negano: la messa a fuoco di una coscienza si riconosce nel vocabolario smozzicato dei simboli. Ma i simboli hanno presa perché sono schemi da riempire, cifre che non possono essere decifrate senza chiave, che si porta dentro, ed è l’esperienza morale cui si riferisce il simbolo. Sempre cercando questa chiave. A. l’ha sempre indicata. Il magnetismo velato, sfuocato dei suoi simboli allude a qualcosa di faticoso da decifrare, ma ne asseconda anche la lettura secondo un assunto costante, che in positivo o in negativo comunque risulta ed è l’assunto della non violenza. Questo sembra infatti il discorso stesso della sua pittura, dove lo stratificato, l’assorto, il soffuso non parlano in termini di lirismo, né di giuoco ottico, ma di interiorità morale.
Maurizio Calvesi, catalogo “Arco d’Alibert”, Roma 1970