4 - 14 Novembre 1999
CON-FUSIONE…IL CORPO-IL CORPO CON…FUSIONE
NOVESTUDENTI + 1
massimo ciccone, antonio di campli, stefania di fabrizio, angelo galgani, sonia marinangeli,
marco palmas, lucia piccioni, stefania santilli, pier paolo scimia, alessia d’ippoliti giovannelli.
Mostra di arte contemporanea curata dai docenti del corso di Anatomia artistica, professori Giuseppe Bruno Vecchio e Anna Maria Maiorano, Accademia di Belle Arti L’Aquila – Anno accademico 1998-1999 – MUSPAC – Museo Sperimentale d’Arte Contemporanea, L’Aquila.
L’invito a visitare questa mostra mi ha dato una opportunità di verifica viva a vari livelli: istituzionale prima, programmatico quindi da parte dei docenti e soprattutto propositivo per i risultati ottenuti dagli allievi e presentati nel bellissimo spazio del MUSPAC che hanno saputo condividere con un allestimento che ha occupato l’area totale compreso il chiostro. «L’Accademia di Belle Arti – scrive il Direttore Eugenio Carlomagno nella premessa in catalogo – nel proporre questa mostra, intende contribuire alle manifestazioni artistiche della città, ricoprendo un ruolo non occasionale nell’ambito della promozione culturale e delle iniziative di sensibilizzazione delle arti visive. Le manifestazioni, grazie al potenziale umano e professionale che questa Istituzione dispone, si caratterizzano per il duplice significato didattico ed espositivo, nel senso di favorire, nel contempo, le prime esperienze degli studenti e la sperimentazione nella ricerca di forme espressive coerenti. L’Accademia intende proporsi Istituzione attenta alle problematiche avanzate ed ai paradigmi della creatività contemporanea, attraverso la ricerca e sperimentazione nell’ambito delle nuove tendenze, collegandosi anche alla realtà produttiva e culturale della comunicazione».
Segue poi il saluto del Presidente del Consiglio di Amministrazione, Ing. Giorgio Santini che non nasconde la propria soddisfazione.
Anche Enrico Sconci, Direttore del MUSPAC, sottolinea l’importanza dell’operazione: «La mostra didattica che ci è stata proposta, ci sembra molto significativa, perché rappresenta il superamento di un insegnamento tradizionale ed è quindi in sintonia con i nostri programmi multimediali in cui abbiamo sempre rifiutato l’idea di museo come semplice raccoglitore di opere. Crediamo cioè ad un concetto allargato di arte che consenta di arricchire e sia partecipe della struttura dinamica dell’intera conoscenza. Riteniamo si debba collegare in modo dinamico il lavoro degli studenti svolto all’interno della scuola al mondo esterno, a cui un domani dovranno essere in grado di fornire prodotti estetici di alta qualità».
E questa è la premessa dei curatori: « Conoscere l’uomo, vuol dire comprendere come attraverso la sua fase evolutiva si sia adattato ad un ambiente apparentemente a lui ostile. L’uomo è l’unico essere capace di elaborare un pensiero, per espletare tale funzione ha bisogno degli altri e quindi comunicare. Conoscere il corpo vuol dire, evidenziare attraverso un’indagine cognitiva, la sua creatività in tutte le molteplici e variegate possibilità. Da qui l’importanza del messaggio del corpo che diventa mezzo espressivo irrinunciabile, ma anche espressione simbolica. L’artista impegnato in questa ricerca, libera l’azione quotidiana dai modelli di comportamento, li ridefinisce nella sua dinamicità.
Il gesto, il linguaggio e l’azione, acquistano un nuovo valore identificandosi con il fare artistico. L’indagine sulla creatività del corpo diventa presa di coscienza di una ritualità che agisce fra sé e gli altri, tra l’artista e lo spettatore, ritualità che ha le sue origini nei cerimoniali tribali rielaborati attraverso la conoscenza del proprio essere. Il corpo inteso come traccia, segno della memoria di ogni tempo lasciata dall’uomo è stato il tema al centro di una analisi progettuale nella quale, alcuni studenti, coniugando la teoria con la pratica delle arti, hanno sviluppato un percorso di ricerca e sperimentazione e, tenendo conto della centralità del laboratorio, hanno tentato di dare delle risposte alle molteplici esigenze nate dallo sviluppo delle arti visive a livello artistico, culturale e tecnico».
Da parte mia, voglio innanzitutto rendere noto che ancor prima di accedere nel museo si è già nel vivo della mostra perché attratti dalla “sensazione uditiva” dei “rumori fuori scena”, la registrazione del suono-rumore e dei ritmi prodotti da Marco Palmas mentre realizza un’opera di scultura e diffusi qui per mezzo di amplificatori. A questa prima fase della installazione è collegata quella tattile-uditiva ottenuta dal calpestìo delle scaglie di pietra cosparse nel vano di accesso alle stanze posteriori dell’edificio ed anche quella visiva che richiama l’attenzione attraverso gli strumenti dello scultore posti sopra uno sgabello di legno, per suggerire l’assenza della scultura che sarà percepita nelle fasi descritte ed anche per effetto dei “rumori fuori scena”.
L’atrio è condiviso da Massimo Ciccone e Stefania Santilli. Il primo propone due grandi opere ispirate ai graffiti delle caverne, realizzate con acrilico su tavola e disposte diagonalmente agli angoli della stanza, mentre, sul pavimento, piastrelle tonde di terracotta di varie misure riproducenti “piattelli labiali” per rievocare aspetti di usanze tribali di antiche tribú. La seconda presenta un video realizzato in b/n dove appaiono vari personaggi dei quali vengono riprese soltanto le mani che gesticolano mentre rispondono con frasi che scorrono sul video. Viene ben focalizzata «l’importanza della gestualità nell’atto comunicativo che varia secondo i significati che ad essa attribuiscono le varie culture» e illumina con la sua opera “il silenzio di un gesto”, una frase di Focillon: “ La mano è azione, essa afferra, crea e talvolta si direbbe addirittura che pensi…”.
La scala in pietra ci conduce alla stanza del piano rialzato alla sinistra dell’ingresso dove ci accoglie il “presunto conte di campli da verona” che troviamo vicino ad un leggìo sul quale poggia un testo di Storia dell’Arte che in prima pagina dichiara l’intenzione primaria della sua operazione: Omaggio a Gino De Dominicis, con riferimento specificoalla lettera sull’immortalità – Flash Art n. 215 aprile-maggio 1999. Antonio Di Campli ha inserito la sua immagine in tutte le tavole a colori del testo.
Nella stessa stanza troviamo Pier Paolo Scimia con “chiedimi che ore sono!” una sequenza dell’immagine del suo volto elaborata al computer e che con otto spostamenti della lancetta dell’orologio si trasforma in teschio.
Il lavoro di Alessia D’Ippoliti Giovannelli, “bancarella souvenir”, evidenzia il rimando al kitsch: su di un tavolo coperto con una stoffa a fiorellini e con una tovaglia con i bordi di pizzo, poggiano una cassetta contenente delle finte reliquie umane realizzate con calchi di gesso, un candeliere, tre colonne sulle quali poggiano altrettante statuine e sulla parete un piccolo quadro di plastica stampato e raffigurante la natività.
Il libro “esercizi di stile” di Lucia Piccioni che prende spunto da Raymond Queneau e si articola in 23 pagine attraverso le quali ella intervenendo sull’immagine del suo volto lo deforma chiedendosi ogni volta l’evidente quanto difficoltosa affermazione della propria essenzialità. L’immagine riprodotta in catalogo mostra l’aspetto “volgare” attraverso la gestualità delle labbra, della lingua e della bocca.
Nella stanzetta aperta lateralmente su questa piú grande, la serie di fotografie in b/n di Sonia Marinangeli “odíle cantare nel fuoco”. I titoli delle foto impaginati verticalmente e inseriti nell’immagine riprodotta in catalogo si trasmutano in poesia: “e ascolta il vento / l’anima segreta delle cose / nell’albero che geme / la perla / il chiodo / il feto / odíle cantare nell’acqua / il nommo femminile / il percorso fino all’ascoltare / forza vitale / di dietro / la linea d’ombra / archetipo / libìdo / pulsione / rubèdo / negrèdo / albèdo / microcosmo / pensiero moderno /…ripetuti fino al bordo della pagina.
Nel locale retrostante troviamo Stefania Di Fabrizio con “giro giro tondo”, un mandàla realizzato con una struttura in filo di ferro nella quale lei entra per cambiarla nelle varie forme che sono anche riprodotte dalle fotografie esposte. Durante la sua performance, sul suo corpo viene proiettato un disegno eseguito da bambini.
Nel chiostro, infine, troviamo Angelo Galgani con la sua “traccia”, una installazione su prato inglese da lui stesso seminato escludendo l’impronta lasciata dal suo corpo nella terra rimossa per la semina.
Ho cercato di descrivere oggettivamente i lavori di questa mostra ed anche la collocazione negli spazi che li comprendono perché vorrei anche provare ad esprimere il mio punto di vista sulla qualità intrinseca al modo contemporaneo della produzione delle immagini. Il pre-testo mi è naturalmente offerto dalla mostra stessa allorché uno degli allievi si collega a Focillon.
«L’estetica di Focillon fu una estetica obbiettiva, fondata sull’esistenza, sull’autonomia e sull’autolegalità della cosa, della forma. La vita è la forma e la forma è il modo della vita. Con Focillon, Souriau e Bayer furono i due studiosi che contribuirono a dare una fisionomia originale a questa corrente: tanto piú la loro preoccupazione cosale si inseriva nell’ambito dell’estetica francese caratterizzata, a voler schematizzare il panorama, da due aspetti fondamentali: quello psicologico e quello sociologico». (1)
Questo primo riferimento rende testimonianza alla indagine gestuale effettuata da Stefania Santilli “la mano è azione”: siamo qui anche ricondotti all’origine del linguaggio, o meglio, della parola che i gesti accompagnano e ne rafforzano a volte l’intensità a volte la sostituiscono, e ciò mi fa pensare che la parola in principio era proprio un gesto.
Il gesto dei graffiti ricordato da Massimo Ciccone e sostenuto da Leonardo: «Adunque la pittura è da essere preposta a tutte le operazioni, perché contenitrice di tutte le forme che sono, e di quelle che non sono in natura». Parole che condensano la qualità alta e peculiare ad una osservazione che sconfina dai margini della riproduzione delle forme per individuare gli argini della creatività. E non si tratta soltanto di una definizione bensí di una constatazione volta ad un modo di essere e di operare al di fuori di riferimenti statici ma proiettati autonomamente nei Collegamentiatemporali e quindi anche nella Forma che deve venire.
La riflessione su e nel Tempo proposta da Pier Paolo Scimia ci fa asserire che la massima «chi ha tempo non aspetti tempo», è un’affermazione astratta benché risulti sostanziata dalla possibilità di poter essere attualizzata. Da questa prospettiva assume rilievo assoluto la certezza contenuta nell’approfondimento che culmina in un consiglio – che certamente riguarda principalmente chi lo offre – e che, se accettato, non può lasciare dubbio perché è inesorabilmente esatto.
Con l’omaggio a Gino De Dominicis ed il riferimento alla sua lettera sull’immortalità, Antonio Di Campli, mi fa pensare a Jung quando ci indica che il simbolo contiene e perciò rappresenta un archetipo che significa appunto Principio che ha una Forma. (E la forma non è, forse, inseparabile dalla sostanza che le è propria?).
Anche il Ta’wil del Sufismo a questo proposito sembra essere illuminante poiché vuol dire risalire la corrente fino alla fonte, e quindi alla trascendenza che è sostanziata dalla verticalità, dall’ascesa proprio in virtú di aver potuto esperimentare l’orizzontalità ed anche la profondità dell’interiorità che contiene la scintilla del collegamento invisibile della nostra essenza. In quest’ottica il lavoro consisterebbe essenzialmente nel catalogare l’immagine materialistica, figurativa e/o iconografica, per entrare in quella piú sottile della Forma che deve venire e che potrà essere soltanto come e se l’uomo-artista saprà qualificarla intuitivamente ancor prima di identificarla: è la via della vera Arte che conduce alla spazialità, alla monocromia, all’Uno. È anche una proposta di attesa vigile per una riflessione esoterica, sigillo del silenzio operante che scaturisce dalla profondità dell’essere.
Un interrogativo che si pone anche Lucia Piccioni con “esercizi di stili” da Raymond Queneau e che mi riconduce dentro la parola UOMO:
Una
Occasione
Meglio
Organizzata.
Come a me accade forse per poter proseguire in questa fantasia con la massima concentrazione riflessa in ogni cosa e con la chiara volontà considerato che potremmo stare altrove. Ma l’implicazione è accettazione attiva attestata appunto nel rifiuto della propria e insopprimibile presenza: un dialogo, in realtà, forse, un monologo aperto da sempre e sempre in cerca di un possibile ed evidente senso verso il Sestosenso della Lucida assenza proposta da tempo, (2).
Semplicemente, qualcosa che contenga il suo perché visibile quale realtà determinabile nell’indeterminato; e sarebbe una prova conscia dell’inconscio: cardine cruciale insito nella zona opaca della mente contraffatta da sostanze inibitorie all’interscambio. Infatti, la formula di Lacan è chiarissima: «Il linguaggio umano costituisce una comunicazione in cui l’emittente riceve dal ricevente il proprio messaggio in forma invertita» (3).
Potrebbe essere per questo che taluni, insistendo nella idea del Niente, non si accorgano della propria contraddizione. Se dicessi qualcosa e chiamassi questa cosa Niente, si suppone che io sappia quel che dico e in quest’ultimo caso affermerei specificamente Niente perché esprimerei un concetto il cui significato sarebbe inesistente per inadeguatezza formale. Se invece fossi veramente convinto della mia affermazione me ne starei tranquillamente quieto nel mio silenzio pronto semmai alla eventuale puntualità di un ragionamento auspicabile ne “L’Ordine del discorso” (4): posso affermare ciò che nego soltanto perché nominandolo lo penso?. Quindi credo che si possa riflettere sulla qualità essenziale del Niente che è di natura significante: mobile forma immobile della energia vitale chiara ed operante nel differenziale creativo per una reciproca valutazione volta ad una identità sferica.
Sonia Marinangeli si aggancia a questa sfericità con le sue fotografie che parlano delle trasmutazioni alchemiche del corpo e del sentimento condensato nell’intensità dei volti e delle posizioni. È ciò che ottiene anche Angelo Galgani in maniera esattamente rovesciata con la “traccia” dell’impronta lasciata dal suo corpo nella terra seminata e che darà chissà quale altra forma di vita. Anche la proposta di Alessia D’Ippoliti Giovannelli possiamo agganciarla qui e per esprimerci in termini alchemici lei evidenzia la cosí detta via umida che vien fatta corrispondere ad un comportamento che ripone tutto in un atto di fede.
Marco Palmas si appropria di tutto lo spazio perché il volume del suono consente questa possibilità e per mezzo della sua natura impalpabile ci permette di poter constatare il peso dell’immateriale ed anche la probabilità di accesso nel campo della risonanza. Quasi allo stesso modo, Stefania Di Fabrizio entra nella sua opera e costruisce le varie immagini sottolineandone l’interazione.
A tal proposito, e per l’intera operazione, possiamo concordare che «se si pone una definitezza originaria e immodificabile della configurazione formale – prima di ogni atto interpretativo – la conoscenza si riduce ad un riconoscimento e non diventa invenzione ed euristica. Riassorbendo l’intelligenza nel già fatto, nell’elaborato che si esplicita, la si riassorbe in definitiva nella percezione. Ora, lungi dal riassorbire l’intelligenza nella percezione, si porta invece molto avanti il problema della percezione interpretandola in termini di intelligenza» (5).
(1) Cfr. Umberto Eco, La definizione dell’arte. (Strumenti di studio) I. Estetica. Saggi. Garzanti, Milano 1983. Capitolo L’estetica di Bayier: la cosa e il linguaggio, pp.79-101
(2) Cfr. Carmine Mario Mulière, Dall’Esperienza, poesie, premessa di Mario Petrucciani, EA Edizioni d’Arte, Roma 1982.
(3) Cfr. Jacques Lacan, Ouverture della raccolta, in Scritti, a cura di Giacomo Contri, Volume primo p.5, Einaudi Paperbacks 52, Torino 1979.
(4) Cfr. L’Ordine del discorso – pubblicato poi con il sottotitolo I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, Nuovo Politecnico 51, Einaudi, Torino 1980, è il testo della lezione inaugurale al College de France, letta il 2 dicembre 1970 da Michel Foucault. È interessante perché Foucault analizza le procedure di esclusione, quella dell’interdetto, in base alla quale chiunque non può parlare di qualunque cosa; quella della partizione e del rigetto, come ad esempio nell’opposizione tra parola della ragione e parola della follia; e quella dell’opposizione del vero e del falso.
(5) Cfr. Umberto Eco, op. citata. Il riferimento qui riportato è tratto dal Traité d’Esthétique, Paris, Colin, 1956, pp.98-99, 3. L’oggetto come “esperienza aperta”, lo riprendo perché mi sembra molto pertinente. Scrive Eco: “È nel Traité d’Esthétique, dove Bayer tira le somme della sua speculazione e cerca di definire la natura dell’esperienza estetica (non tanto di stabilire immediatamente un metodo, quanto di descrivere cosa accada quando io percepisco un oggetto), che egli adisce a una concezione che possiamo chiamare interattiva, in cui l’oggetto appare come processualmente costruito dal mio tentativo interpretativo. (…) “Il formalismo ha torto: una forma non è in se stessa: attraverso delle iscrizioni febbrili e nervose vi si è proiettata una esperienza della nostra attività…È un andamento, non un disegno, c’est une allure, non une figure” (T.d’E. p.41). (…) “L’oggetto estetico non è veramente l’oggetto, ma una posizione critica del modello che, salvo cadere nel banale, lo rimette costantemente in problema e ne fa un teatro di relazioni” ; e, “il diletto è una posizione, una interpretazione critica del piacere: il piacere veramente di una crisis” (T.d’E. p.53). Ancora una volta, continua Eco, questa concezione si oppone a una teoria dell’Einfühlung che ammetta solo una proiezione irriflessa di miei dinamismi psichici nelle forme date; ed esplicitamente si oppone ad una psicologia della Gestalt intesa nella sua accezione piú massiccia… segue il passo riportato (T. d’E. p.89).© Carmine Mario Mulière
(S.I.A.E.)