27 Ottobre - 24 Novembre 1990
Ragioni di una mostra
È già nel titolo di questa mostra il legame in apparenza sottile, in realtà molto profondo, che collega il lavoro di Giovanna Antongini e di Tito Spini alle attività di ricerca di questo Centro Studi. «Il campo dei segni». Chi come noi si occupa di archeologia così come di ogni altra disciplina che indaga i comportamenti dell’uomo, sia esso antico o moderno, «primitivo» o «tecnologico», conosce l’importanza dell’osservazione attenta del particolare e dell’insieme, del rapporto tra il funzionale e il metafisico, dell’uso del simbolo come mezzo di espressione e di comunicazione. E cosa più della «casa dell’uomo», quella individuale così come quella collettiva, concentra questa carica di significati, questa leggibilità a innumerevoli livelli? La realtà africana, qui indagata attraverso alcuni casi emblematici, ci offre a questo riguardo un intreccio di chiavi interpretative di straordinaria ricchezza e complessità. La sacralità, che si manifesta nella costante preoccupazione di ordine liturgico a definire lo spazio. Il legame con la terra, confermato e giustificato dal sistema dei miti di fondazione. L’identità culturale che si concretizza nei comportamenti sociali, nella ripetizione di stereotipi competitivi riferiti a costanti simboliche dove le variazioni personali sono sempre ridotte. Il senso del vivere collettivo, il riflesso delle strutture e delle gerarchie sociali. L’attenzione al gioco dei contrasti, al ritmo dei pieni e dei vuoti, delle luci e delle ombre. L’equilibrato rapporto tra insediamenti e territorio, così perfetto ma anche così fragile da mantenere. E l’elenco potrebbe continuare all’infinito! Giovanna Antongini e Tito Spini ci accompagnano, quasi ci portano per mano in questo viaggio che poi in fondo non ci è affatto estraneo, perché è il viaggio di tutti i giorni e di tutti noi.
Gigi Pezzoli
LA CITTA’ MIRAGGIO
Il fenomeno dell’inurbamento nell’Africa subsahariana
Uno de i fenom eni maggiormente indicativi del violento processo di modificazione che investe l’intero continente africano, e in particolare l’Africa subsahariana, è il drammatico e incontrollabile aumento della popolazione urbana. Attualmente, dei 510 milioni di africani, circa 80 milioni vivono nelle città. Le più recenti prospezioni demoscopiche prevedono che nel 2000 per una popolazione di 700 milioni (tasso annuo medio di crescita 2 ,2 %) v i saranno circa 300 milioni con centrati nei centri urbani. Questa cifra indicata dagli studi delle organizzazioni internazionali (Onu, Unesco, Bird) si basa su parametri relativi al l’inurbamento in atto e a i progetti di sviluppo. La crescita della popolaz ione urbana nell’insieme dei 37 stati che fanno parte dell’Africa subsahariana (esclusi il Sud Africa, il Madagascar e le isole minori) è valutabile nella sua entità dai seguenti dati: agli inizi del ‘900, periodo in cui s i stabilisce la colonizzazione europea, nelle città vivevano 1.100.000 abitanti, nel 1960, anno dell’indipendenza per la maggior parte dei paesi africani, i cittadini sono 10 milioni con un incremento quindi pari all’82 %. In questi ultimi venticinque anni la popolazione urbana sale a 35 milioni e 200 mila unità; in questo stesso periodo le città con oltre 100.000 abita nti passano da 30 a 62, tra queste 12 ne contano oltre 500mila e 3 superano i 2 milioni. La maggior parte delle nuove concentrazioni urbane, formatesi sulle esigenze del colonialismo e consolidatesi nella gestione neocolonialista, sorge in zone diverse da quelle ove esistevano le grandi città africane del passato e i tracciati urbani corrispondono a leggi economiche relative all’utilizzo speculativo dei suoli, all’organizzazione commerciale e industriale del capitalismo occidentale che questi insediamenti ha realizzato per trarre il massimo profitto dalle materie prime e dalla forza lavoro. L’origine della “città coloniale” è quasi sempre legata a una postazione militare situata in luogo strategico attorno alla quale si concentrano e si organizzano le truppe di occupazione. Poiché la finalità prima della guerra coloniale è quella di aprirenuovi territori al lo sfruttamento commerciale, diventa fondamentale la costruzione di una rete stradale e ferroviaria per drenare i prodotti delle zone interne verso i porti dell’Oceano Atlantico, Indiano e del Golfo di Guinea. In conseguenza di questo progetto, la carta geo-urbanistica dell’Africa contemporanea registra le città secondo i criteri coloniali: città strategiche e importanti depositi come ad esempio Bamako, Ouagadougou, Bobo-Dioulasso, Niamey, N’Djamena, Bangui, Kampala – e città drenanti, ossia, i grandi porti – Nouakchott, Dakar, Abidjan, Accra, Porto Novo, Lagos, Douala, Libreville, Mombasa, Mogadiscio, Djibouti. Per realizzare questo disegno è necessario il reclutamento forzato di popolazioni che, lasciati i villaggi di origine, si insediano ai margini delle guarnigioni formando i primi “quartieri indigeni” delle nuove città. L’arrivo delle imprese commerciali e industriali richiama ulteriore mano d’opera e, soprattutto, crea un apparato amministrativo cui sono chiamati a partecipare anche funzionari africani, nascono i “quartieri per i burocrati”. La nuova borghesia africana, in cambio delle posizioni ottenute, firma un patto d’acquiescienza con i colonizzatori, assume sempre maggior forza e potere e si contrappone, sino a sostituirli, ai capi tradizionali. In questo processo le antiche città vengono isolate dai nuovi circuiti economici, svuotate di potere politico, abbandonate dalla popolazione. – Chinguetti, Timbuctu, Djenne, Agades… Lo schema urbanistico delle nuove città con strade ortogonali, modello mutuato dalla cultura della “città funzionale europea”, delimita, separa e fissa in un disegno politico del controllo le classi sociali dentro le grandi lottizzazioni dei quartieri a scacchiera. La definizione forzata degli spazi ortogonali distrugge il concetto di circolarità, e quindi di interdipendenza, degli insediamenti tradizionali africani corrispondenti a precisi sistemi sociali di scambio e mutua assistenza nei quali è coinvolto l’intero gruppo. Nelle anguste aree previste dai lotti, lo scambio è costretto a ridursi all’interno dell’unità familiare e il dramma dell’isolamento produce alienazione. Prima conseguenza di questa filosofia dell’abitare è la privatizzazione del suolo e la creazione di un mercato di aree edificabili, fatto sconosciuto alle comunità africane che sulla terra esercitavano il solo diritto d’uso. Il costo del terreno obbliga a un’edilizia intensiva con modelli standard proponendo tipologie in totale contrasto con la cultura e le risorse economiche di chi ne fruisce. I materiali da costruzione, per la maggior parte importati e con prezzi stabiliti dai produttori europei, giapponesi, americani, russi, cinesi, caricano ulteriormente il gravame economico della costruzione – valutabile attorno a £. 500.000 il metro quadro. Il livello di vita della gran parte degli africani impone ancora oggi la trasformazione familiare dei cereali, base dell’alimentazione quotidiana. Ad esempio, l’attività di pestare e macinare il miglio nei grandi mortai di legno è assolutamente incompatibile con il vivere in case pluripiano. Lo stipendio mensile medio di un funzionario o di un operaio specializzato varia dalle 300 alle 450.000 lire; l’affitto mensile di un’abitazione uni familiare è all’incirca 200/250.000 lire, cioè mediamente il 50% dello stipendio base. Anche per queste categorie, considerate tra le “fortunate”, la sopravvivenza in città è consentita solo da un sostanziale apporto di prodotti alimentari fornito dai parenti che vivono nei villaggi, apporto che comunque non li salva da un pesante e continuo indebitamento per procurarsi ciò che viene ritenuto “indispensabile” per vivere in città: abiti, radio, motociclette e tutti gli altri beni imposti dalla società urbana che con pesanti campagne pubblicitarie indica il modello stereotipo cui è obbligo uniformarsi. Come qualsiasi altra città del mondo ideata e costruita secondo la logica del capitale e del profitto, anche la moderna città africana affida la propria immagine ufficiale alle grandiosi sedi delle rappresentanze politiche, delle banche, dei ministeri, delle imprese commerciali e degli alberghi; riserva aree privilegiate in spazi verdi ai quartieri residenziali per i bianchi e per i ricchi borghesi africani; confina nelle lottizzazioni periferiche la massa degli impiegati e degli operai; tollera, ignorandoli, gli agglomerati abusivi nei quali sopravvivono i senza lavoro, quelli che sono accorsi in città con il miraggio di cambiare la loro difficoltà di vivere nei villaggi con la certezza di uno stipendio e l’accesso a una cultura che li ignora. Negli ultimi dieci anni, da quando le imprese multinazionali si sono orientate verso una politica di industrializzazione in sito, l’indice di inurbamento è aumentato sino a raggiungere livelli macroscopici – Lagos 35%, Kinshasa 35%, Abidjan 32% – II miraggio-città cui prima abbiamo accennato, ha fatto sorgere tutt’attorno ai centri pianificati megalopoli di cartone e lamiera dove vive il 75% della popolazione censita. Questi agglomerati umani sono gli inesauribili serbatoi delle più feroci speculazioni: l’enorme surplus di mano d’opera disponibile a lavori precari, giornalieri, favorisce il mantenimento di salari minimi e ogni violazione della legge sui contratti di lavoro. II flusso inarrestabile degli immigrati proviene dalle campagne e dai deserti, da dove le calamità naturali e la mancanza di una politica di riequilibrio territoriale li hanno scacciati. Lo svuota mento delle aree rurali e l’abbandono della pastorizia sono tanto più gravi in quanto ancora oggi l’economia dell’ Africa nera si affida alla produzione agro-pastorale che consente almeno la sopravvivenza del 90% della popolazione. La frattura tra città e campagna è netta: un’opposizione di due mondi estranei legati da un unilaterale rapporto parassitario. Ad esempio, nel Burkina Faso (i dati sono antecedenti alla recente rivoluzione) ai funzionari che vivono in città e sono il 3 % della popolazione vai 170% del reddito nazionale. Ma questo modello è vincente! Malgrado i ben noti eventi drammatici: milioni di africani espulsi dalla Nigeria nello spazio di poche ore, la constatazione dell’invisibilità degli agglomerati urbani, l’ormai acquisita certezza di non trovare lavoro (o di trovarlo a condizioni disumane) malgrado tutto, l’afflusso alle città-chimera continua. La “città controllata” è circondata dalla città abusiva: una concreta realtà di dimensioni sempre maggiori. Alcuni dati recenti sulle occupazioni abusive di aree urbane: Bamako, 65%; Accra, 52%; Kinshasa, 63%; Yaounde, 90%; Ouagadougou, 65%. Questo fenomeno produce un’edilizia provvisoria per la necessità di ridurre al minimo i costi e in previsione di rimozioni forzate in un contesto totalmente sprovvisto di strutture primarie e secondarie: fognature, scuo1c, centri di assistenza medica ecc. Una città feroce, in cui per la maggior parte dei cittadini la sola possibilità è appunto un riparo di cartone o di lamiera. Kinshasa si estende per 70 Km., oltre 40 sono occupati dalla città di cartone dove il 90% della popolazione non ha acqua corrente e il 95% non dispone dispone di elettricità. Le stesse condizioni a Lagos, Oakar, Cotonou, Douala… Ma anche nella cosiddetta “città pianificata” l’abitare tende a un continuo peggioramento; un’indagine recentemente condotta dall’O.M.S. ha accertato che ad Accra vive una media di 18 persone per alloggio unifamiliare, 12 a Lagos, 15 a Douala e 10 a Nairobi. Un’analisi da noi condotta nel 1983 a Ouagadougou su alcuni nuclei familiari composti di 7 persone: padre (salariato medio di settimo livello) madre, 5 figli di cui tre in età scolare, ha fatto emergere i seguenti dati (le cifre sono tradotte in lire italiane). Stipendio complessivo mensile: £. 212.000, alimentazione: £. 145.000, spese scolastiche per 2 figli: £. 5.300, imposte sullo stipendio: £. 5.000, spese pensionato scolastico per l figlio: £. 15.000, quota sindacale: £. 1.400, affitto per una casa in mattoni composta di 3 vani (mq. 70) più cortile: £. 62.000. Totale £. 233.700, ossia un deficit mensile di £. 21.700. Nulla è stato previsto per l’abbigliamento o per l’ospitalità dovuta ai numerosi parenti che dal villaggio ogni mese vengono in città. Il destino di questi nuclei familiari è la loro dissoluzione entro pochi anni; i figli, non appena raggiunta l’età lavorativa -13/14 anni- emigrano in Ghana in Costa d’ Avorio o in Nigeria; i più piccoli vengono rimandati nella famiglia al villaggio. Altra soluzione, l’abbandono della casa d’affitto e il trasferimento nelle case abusive, nei ripari di cartone e lamiera. Di fronte ai già drammatici dati dell’oggi, la prospettiva per l’anno 2000 propone ancora più vera l’immagine che tanti anni fa lo scrittore camerunese Mongo Beti poneva a titolo d’un suo famoso libro”Ville cruelle” . In che misura e in che modo questa situazione è modificabile? Come sarà mai possibile sconfiggere le peggiori previsioni di vita in queste città africane, trappole finali per una corsa di fuggiaschi? I problemi di fondo sono certamente politici: il retaggio coloniale e le nuove forme più sofisticate di neocolonialismo hanno avuto, e avranno ancora per lungo tempo, la loro nefasta influenza, ma una grande responsabilità pesa anche sui governi locali troppo spesso conniventi nello sfruttamento delle popolazioni, del loro livello di vivere e quindi anche di abitare. Si pone come primo progetto la formazione di linee di sviluppo antisolare a quello della concentrazione nei centri urbani; linee di forza che si potrebbero realizzare in una diversa politica dell’agricoltura, dell’allevamento, dell’industria. L’enorme debito alimentare dei paesi africani non è solo dovuto al flagello della siccità ma, soprattutto alla mancata riorganizzazione dell’agricoltura e dell’allevamento. In questo contesto di esame per un equilibrio dei territori si pone anche la cultura e l’economia dell’abitare. Non vogliamo qui mitizzare la struttura insediativa del villaggio tradizionale e delle sue unità abitative ma è certo che ancor oggi indagini da noi condotte in Mali, Mauritania, Benin. Burkina Faso, Niger e Camerun hanno evidenziato il rapporto organico esistente tra funzione e modello dell’abitazione, tra stabilità psichica e referenti territoriali e, dato di estrema importanza, la continua invenzione di soluzioni di grande economicità. Certo anche nel contesto rurale sorgono problemi di status symbol, il funzionario che ha visto il suo parigrado abitare in città in una casa di mattoni con il tetto in lamiera (casa peraltro invivibile nella stagione calda, intollerabilmente rumorosa durante le piogge e che inoltre crea condizioni di isolamento rispetto alle altre abitazioni vicine) vuole comunque quella casa. Un’analisi da noi condotta a Kampti, nel distretto di Gaoua nel Burkina Faso, sui costi delle tipologie di abitazione ha messo in evidenza l’enorme differenza d’impegno economico tra la “casa del funzionario” -mattoni e lamiera- e la costruzione tradizionale in terra stabilizzata, con strutture portanti in legno indipendenti, copertura a terrazza in legno e terra pressata e impermeabilizzata. Per un edificio di mq.l00 del primo tipo il costo è di £. 3 milioni e 900mila, mentre per la casa tradizionale di analoghe dimensioni il costo è di £. 750.000. Nel secondo caso inoltre si dispone di una doppia area: i 100 mq. del tetto terrazza, utilizzabile come deposito e abitazione durante la stagione più calda. Considerato lo stipendio medio d’un insegnante o di un funzionario, tolte le spese di sopravvivenza, una casa in mattoni e lamiera rappresenta un indebita mento per circa 30 anni. Considerati questi termini economici, alcuni governi, tra cui quello del Burkina Faso, stanno tentando interessanti esperimenti per il miglioramento del costruire tradizionale con l’introduzione dell’uso di additivi per la maggior coerenza e impermeabilità della terra così da rendere meno deperibili costruzioni che hanno il pregio di poter essere realizzate per intero con mano d’opera e materiali locali. Tecniche analoghe potrebbero venire introdotte anche nelle zone di nuovo insediamento urbano con l’addestramento degli stessi individui che ne saranno i fruitori. E’ la strada indicata già da tempo da Ivan Illich. Si tratta di articolare in prospettiva dei piani possibili per una autocostruzione assistita in cui intervengano cittadini, tecnici ed enti locali riproponendo in termini corretti quei parametri tecnologici, formali e sociali che riconducono a una identità culturale oggi alienata in modelli impropri. Le linee di sviluppo anti-polare indicate più sopra che hanno per base la decentralizzazione degli interventi, presuppongono indirizzi politici molto diversi da quelli in atto; le oligarchie locali non vogliono perdere il controllo del potere, del commercio, dell’industria e, in questi ultimi anni, anche la gestione degli aiuti internazionali che giungono nelle città e raramente arrivano a destinazione nei villaggi: enorme bottino per i centri di gestione. La trasformazione in luogo delle materie prime potrebbe consentire un ulteriore decentramento della rete industriale sottraendo alle multinazionali il ricatto dell’imposizione dei prezzi sia delle materie prime, sia dei prodotti reimportati nei paesi d’origine. La mappa della nuova urbanizzazione deve essere un tracciato per linee e fasce non per punti: una rete di rapporti che l’Africa già contiene nella propria cultura, quella antica delle città- stato contrapposte, sì, nello scontro di potere ma anche legate da stretti rapporti economici, sociali e culturali. Stiamo assistendo alla nascita di nuove capitali: in Nigeria, Albuja; in Costa d’Avorio, Yamoussoukro; in Tanzania, Dodoma. Modelli tecnici e culturali molto diversi: il primo, una nuova Brasilia; il secondo, una nuova Versaille; il terzo esempio sta nella filosofia del socialismo umano di Nierere. Questi non sono certo gli interventi di cui l’Africa ha bisogno, rappresentano delle ideologie e non progetti integrati che tengano conto del reale e del possibile, che tentino seriamente di modificare nel vivo l’orrore dello stato di fatto. Giovanna Antongini – Tito Spini