8 Ottobre / 7 Dicembre 1987
Le conversazioni che si sono svolte al “Quarto di Santa Giusta” fra il dicembre 1986 e l’aprile 1987 sulla storia della forma urbana dell’Aquila dal medioevo al Settecento hanno avuto un presupposto ed un obiettivo entrambi molto concreti e precisi. Il presupposto era sull’esistenza del “ritorno alle radici” che manifestava la società cittadina dopo il fallimento squallido, eufemisticamente parlando, di ciò che negli anni settanta era stato propagandato come cultura tout court, buona a tutti gli usi, e che si rivelava ora come un mucchio di cenere, quando non come un’operazione propagandata ed indotta di bassa politica, coperchio per le più svariate pentole e bandiera per diversi contrabbandi. Ma il pericolo che questo “ritorno” non interpretato né guidato in alcun modo, anzi abbandonato a sé stesso da un municipalismo compiacente, in attesa di rifarsi un’assai improbabile dignità, potesse sfociare nel qualunquismo e nella demagogia, era altrettanto evidente, ed andava anzi già realizzandosi in forme vistose. Gli aquilani avevano ben compreso, sia pure confusamente, che soltanto guardando in sé stessi, nel proprio passato, interrogando la loro città, semplicemente volgendosi intorno, ma con occhio critico ed i piedi ben piantati nella realtà, il discorso culturale poteva riprendere in qualche modo, sia pure partendo pressoché da zero. Null’altro che zero era infatti la politica culturale cittadina in quanto conoscenza dell’ambiente ed interpretazione del patrimonio storico, i cosiddetti restauri alla piazza ed alla Rivera che erano in realtà rifacimenti ed “invenzioni” destituiti di qualsiasi spessore civile, quando non anche di qualità tecnica e professionale, S.Agostino violentato e strozzato in quella che era stata la sua geniale novità settecentesca, nessun progetto neppure “utopistico” per S.Domenico, Collemaggio abbandonata al cerone, ai riflettori ed alle cartoline illustrate della Perdonanza, piazza S.Giusta sempre nell’occhio del ciclone dellla più rozza speculazione privata, l’antica porta Barete riscoperta casualmente e consapevolmente distrutta un’altra volta nell’indifferenza ottusa di chicchessia, prima che dichiarassero fuori i mandati di comparizione per il supermercato, S.Maria Paganica rivolta sempre più ad un parcheggio impazzito, e così via. Il progetto di scendere nelle viscere della piazza a ripetere artificialmente, forse sotto la direzione del professor Zichichi, il terremoto del 1703, e che vedeva il sindaco dell’Aquila eroicamente solo come Antonuccio Camponeschi davanti alle masnade braccesche, o l’altro progetto di trivellare la città, sempre allo scopo di farne conoscere meglio gli abissi, dal momento che in superficie tutto era ormai conosciuto, catalogato e salvaguardato nel migliore dei modi, tutto ciò dimostrava ad usura che il punto di non ritorno era ormai in vista, che l’irreversibilità del traguardo cittadino fino ai limiti dello sforzo era ormai questione di mesi. L’unanimità sulla trivellazione dell’Aquila come risultato forsennatamente plebiscitario dell’effetto Perdonanza sanzionava nel modo più eloquente il suicidio della classe dirigente e l’abbandono della città al suo destino. A questo punto sono venuti fuori i cittadini, nel loro disorientamento, che era però anche curiosità ed interesse: ad una circostanza occasionale ma pur significativa, l’approssimazione dilettantesca con cui si è andati incontro ad un grosso appuntamento culturale, civile e last but not least urbanistico come il centenario di Margherita d’Austria, ha fatto toccare con mano la necessità e l’urgenza di parlare, se non altro, di dire che il re era nudo, e che occorreva approntargli se non altro un cencio di vestito. Questo è stato l’obiettivo primario delle conversazioni, far conoscere, e farlo dall’interno, della realtà quotidiana alla portata di tutti, senza la sovrapposizione di schemi, guardando a Coppito prima che a Francoforte, con la modestia che costruisce e non con l’arroganza che vaneggia. Chi ha seguito le conversazioni ha oggi probabilmente un’idea meno imprecisa di che cosa all’Aquila c’è, ed è suscettibile di studio, di sviluppo, di utilizzazione, ai più svariati livelli, e di quel che non c’è, che è impossibile che ci sia e che non importa che non ci sia, perché quello che c’è è d’avanzo. Dagli inurbamenti e dalle città nuove di metà Duecento agli architetti militari e sacri fiamminghi e borgognoni a contatto con le maestranze locali, dall’incontro-scontro fra Celestino V e Bonifacio VIII visto non tanto in chiave populistica da “avventura di povero cristiano” quanto come espressione della crisi dell’idea universale dantesca della Chiesa e dell’Impero al dare ed all’avere con Firenze e la Toscana, il guelfismo, la lingua di Buccio, e così via dicendo, dal teatro sacro dei Domenicani alla “filosofia” civile dell’Osservanza francescana, dalla dogana di Puglia vista anche qui senza reazionari rapimenti e palpiti pastorali al rapporto tra città e campagna nel Cinquecento meridionale, dall’erudizione antiquaria provinciale del tardo Rinascimento alla componente gesuitica ed a quella oratoriana della Riforma cattolica, dalla musica dei tempi di Margherita all’architettura dei Gesuiti ed al loro teatro, dalla città barocca con i suoi “modernamenti” non soltanto di gusto e di stile alla città di provincia del Settecento con la sua variegata e composita società, tutto ciò è emerso con sufficiente chiarezza e logica, e si è proposto spontaneamente ad approfondimenti di per sé stessi in grado, se opportunamente coordinati e programmati, di fornire una piattaforma di base per una cultura autenticamente cittadina. Basti pensare, in termini individualistici, dopo Buccio, a quali possibilità di aggregazioni e di paralleli offrano nei successivi secoli i cronisti del Quattrocento, Bernardino Cirillo, Francesco Bedeschini, Donato Rocco Cicchi e la “scuola” di Pescocostanzo, per rendersi conto di quanto uno stimolo periferico e provinciale possa allargarsi a risonanze meridionali e più di una volta nazionali. E non si parla degli aspetti strettamente urbanistici, lo spontaneismo e la razionalizzazione nel processo formativo dei quartieri, la loro rispettiva stratificazione sociale, i rapporti nel suburbio, la “laicità” o la forza compattatrice del momento religioso ed ecclesiastico, fino a grandi temi come il castello in quanto modello dell’architettura imperiale spagnola che giustifica coinvolgimenti consapevolmente internazionali. Rientra negli intenti del “Quarto di Santa Giusta” da un lato promuovere ed intensificare il legame civile che si è venuto a strutturare fra l’istituzione ed il pubblico, in modo da definirlo come interlocutore ineludibile in un discorso culturale che rifiuti le soluzioni di vertice e di scuola, dall’altro mantenere aperta la tematica aquilana con uno slargamento per il momento abruzzese, che consenta approcci e verifiche con le realtà urbane ed ambientali a nostro più stretto contatto, e non soltanto sul piano della storia. Conoscere il passato per operare sul presente e preparare il futuro è uno slogan vecchio ed ormai screditato, ripetere il quale in forma programmatica sarebbe di cattivo gusto. Si tratta di passare dal programma ai fatti: e fin qui ci si è potuti misurare con una serie di fatti. La parola ora torna ai cittadini purché essi non rimangano acquisizioni fine a sé stesse ma forniscano i capisaldi per un programma che essi stessi, i cittadini, hanno la possibilità, e perciò il dovere, di elaborare.