11 Giugno - 30 Luglio 1988
Da tempo ogni cosa ha preso a cantare il gattopardesco “come prima più di prima” e invece di superare si avvicina sempre più a un’idea del tutto fantasiosa, stereotipa, tirata a lucido dal modernismo (magari post capitalista?) e per questo pare discostarsene; ovvero se ne allontana, ma con un movimento simmetricamente reattivo che a conti fatti mantiene tutto in equilibrio.
Non li vedi? Sembrano tutti usciti di fresco da corsi appunto specialistici dove hanno appreso lezioni coatte per correre sul filo del buongusto e del perbenismo ottico esercitandosi in insensibili spostamenti di quanto si sono ritrovati sulla strada senza essersi posti neppure il problema di sceglierlo, solo l’incarico di amministrarlo. Alcuni hanno preso a dare spintoni alle avanguardie storiche per costringerle al passo dei tempi; altri, più scaltri nell’esercizio delle arguzie, riescono persino ad accecarsi senza per questo perdere di vista il decorativismo continuato e camaleontico dello stile. Tralasciamo i post rafaelliti della città Rossetti con i loro spupazzamenti neppure pornografici. Adesso si invitano reciprocamente a convegno non più per celebrare ma per seppellire il post moderno. Finezze della retorica per riportare in vita cadaveri nemmeno “squisiti”, pur anche eccellenti, lasciati semplicemente ibernare più a lungo nell’armadio dell’ideologia “pret a porter”, con annesso sconto. Occorrono altre sedie? Chi è rimasto in piedi? I fatti della cultura di questi ultimi anni sembrano ispirarsi a problemi di ordine pubblico. E se una volta si avevano delle catene da cui liberarsi a un mondo da conquistare, poi si sono confezionate delle catenine con cui ornarsi a una posizione da conquistare. Oggi chi può sostenere che si sta uscendo dal postmoderno quando si hanno solo dei posti da difendere in un mondobuoi che ci ha conquistati?Più semplicemente qualcuno vorrebbe sgusciare fuori dal parco buoi coniando formulette propiziatorie, spaventato dalla mungitura della neo Wall Street che minaccia il mattatoio di sempre. Più concreto qualche altro ha pensato bene di bruciarne lo steccato. Ma il fuoco che prima divorava adesso colora, omogenizza le cose col suo nero profondo che assorbe la luce e non rimanda a nulla: neppure il linguaggio si scompone più, confortato nel riposo di una nottata che non passa. Appena bruciati i legni diventano belli da guardare e i buoi rimangono incastrati dentro, in ammirazione. Daltronde, se tutti i problemi sociali sono stati dati per risolti rimangono quelli estetici. Allora l’altra strada che resta è l’analogia. Crollata, quel venerdì nero di un settembre dello scorso anno (tanto nero che pareva un lunedì trascorso da decenni) ogni speranza in un futuro di gaudiosa produzione (che a contemplarlo pareva un mistero doloroso), non resta che raccomandarsi a Dio tanto da ovest che da est. Abbiamo saputo di un abitante del ghetto di Varsavia che durante l’ultima guerra ogni mattina, prima di recarsi al lavoro, illustrava sulla parete di fronte al letto della figliola una favola sempre diversa. La piccola restava tutto il giorno coricata a guardare il disegno ripercorrendo, con lo sguardo e la memoria, la medesima storia per innumerevoli volte fino al rientro del padre. Priva di scarpe e di soprabito le sarebbe stato micidiale vivere altrimenti l’inverno polacco. Vi è una fotografia di tutto questo, da qualche parte. Col tempo quel procedimento è divenuto potente fascinazione grazie alla luminosità elettronica. E se una volta era servito per la sopravvivenza dell’innocente, ora serve ad altro, forse per attendere padrini di turno, mafiosi o pedofili che siano, purchè rimbocchino le coperte di sicurezza. Anche avendo scarpe e soprabiti sempre nuovi si rimane con i piedi nel letto con l’illusione che la realtà ci venga incontro sorridente e chiara. La simulazione tecnologica dell’occhio ci illude di penetrare i fatti allontanandocene irrimediabilmente e rendendoci prigionieri della coda (il solito colpo di coda?) di un fantomatico presente. Avviati versi inconcludenti derive poetiche, a che serve mostrare dei fatti, sia pure dei fatti artistici, se poi non è possibile proiettarli nel futuro, loro e nostro? Certamente le opere devono reggersi sulle proprie gambe, ma se poi non prendono a camminare, se non ne hanno o trovano motivo, a che cosa serve farle stare in piedi? Allora, giusto, procurategli una sedia. Rimarrebbe da decidere quale? La sedia di Van Gogh è Van Gogh, il suo migliore autoritratto. Proprio perchè lui vi è sottratto, si è sottratto. Negandosi al gioco illusorio degli specchi rimane vuota la sedia sulla quale dovrebbe pur stare; se non c’è è per sancire il suo esistere nel mondo, al di qua del quadro, in piedi a sfondare le proprie scarpe comunque troppo strette anche per quella camera di tortura. Al dolore infatti Duchamp risponde restando comodamente seduto e facendo camminare i pedoni. Invece Rauschemberg, poggiata la sedia contro il muro, volta le spalle al quadro ma gli rimane accanto per bon ton in grandi scarpe da insegna luminosa osservandoci con occhio affluente: gli interessa di più il pubblico. Poi Kosuth con un calcio mostra una sedia: non serve più all’arte nè all’artista, per cui guardala dove vuoi salvo che in galleria: tanto è la stessa cadrega di sempre. In tal modo l’arte ha infine partorito al mondo una sedia senz’altro. E non è stata poca cosa offrire ad una minoranza linguistica di monomaniaci dello sguardo spaesato una semplice sedia su cui riposare almeno l’oeil de bronze”. Finalmente la vicenda potrebbe ritenersi conclusa se non fosse che qualcuno inciampandovi contro non pensasse di poter ancora esprimere da questo ormai esangue stilema da fondi comuni, un qualche lucroso ulteriore profitto, applicandovi un tassametro per eterni giri a vuoto. Magari si ritiene più duro di Van Gogh se prende un brutta sedia, più lucido di Duchamp se la sceglie scomoda, più secco di Rauschemberg se la dipinge di un unico colore o più rigoroso di Kosuth se la conduce a fare un carminativo giro di sedersi porta a porta in cerca di insufflaggi trasfusionali di vita quotidiana. Assieme ai cadaveri riprendono a vivere anche le loro suppellettili; sembra di andare in giro, per una visita ispettiva d’obbligo estemporanea, in un sepolcro egiziano. Allora uno non asseconda tabelle di marcia redatte a prescindere dalle proprie stanchezze a rimane seduto quanto gli pare a piace, magari ad aspettare Godot, incipiente dentro l’orizzonte. C’e’ da meravigliarsi se invece poi arriva una carruba? Infondo Cezanne si aspettava tutto da una carota! Perche’ uno capisce tutto. Pero’ guarda i risultati e dice no. Non sara’ la mia cosa ad essere calzante, ma lo e’ forse di piu’ la tua? Con Raskolnikov invece incalziamo nel dire che il timore del giudizio estetico e’ il primo sintomo dell’impotenza. Se questo e’ vero, edonismo e impotenza vanno a braccetto, e in una epoca di massa il braccetto e’ di massa. Dopo aver capito che c’e’ qualcosa di sbagliato che dirotta tutto sul binario doppiamente morto della dislalia dell’opera e dislessia della critica, si capisce anche che la durezza, il rigore, l’ideologia non sono dei brevetti connessi all’apparecchiatura delle cose o delle formule da applicare e forse neppure dei metodi semplicemente da adottare. L’intervallo che intercorre tra la pittura e la critica rimane quello medesimo esistente tra il quadro a la sedia; e il sole, per quanto sempre piu’ abbassandosi all’orizzonte allunghi le loro ombre, non arriva a congiungerle. Invece le confonde e tutti ne approfittano. Replicanti della critica e turisti della pittura, ciceroni e vacanzieri, ognuno con la propria sedia in mano, si assiepano attorno alle cose e ognuno dice quello che vuole: tanto e’ valso l’effetto Doppler della critica D.O.C. che discetta sulla annosa e speciosa questione della falsita’ in pittura!Forse ad attendere Godot sono rimaste solamente le nostre ombre; not ci siamo alzati, siamo andati? Persino le ombre di Hiroshima hanno smesso di essere le vive immagini della morte per diventare una possibilita’ in piu’ per la pittura, una citazione per affreschi da giudizio universale da utilizzare per qualche mostra incisiva, si spera.Se le ombre si sono allungate i tempi si sono accorciati e le questioni rimangono innumerevoli; ma non possiamo darle tutte, altrimenti ne rimarremmo sprovvisti. L’atto gratuito della critica e il gesto disperato della pittura hanno strizzato fuori dallo stivale anche 1’ombra di Perela’; con una gran risata l’uomo di fumo e’ sparito portandosi via il mottoche il ciabattino aveva inciso a fuoco sulla tomaia: “et ultra”, come? Di sicuro noi sappiamo che l’ultima frase pronunciata da quel praticone di Garibaldi (pace all’anima), ricordando l’incontro di Teano, e’ stata: “Mai piu’ senza programma”. Chi la riporto’ al fumato Emanuele giura che pure lui rise.Anche di questo vi e’ un quadro, da qualche parte.
Allora quadro per quadro e ride bene chi ride chi ride l’ultimo. E’ a questo punto che puo’ nascere un inquietante interrogativo che volentieri porgiamo agli astanti: l’ombra della scarpa e’ una palla al piede?La cosa ci preoccupa.