10 Marzo 1986
La scelta del Centro Multimediale “Quarto di Santa Giusta” di esporre le opere di Armando Gioia, alla sua prima personale, segue una Iinea divulgativa che da tempo la struttura espositiva su indicata si era prefissa, e cioè seguire il lavoro espressivo delle giovani generazioni. Questa particolare produzione oggi è concentrata nell’ambito di una situazione culturale cittadina in difficoltà con il “nuovo” contemporaneo e vittima di conservatorismi molteplici in gran parte nella rinata identità produttiva dell’Accademia aquilana che cerca di garantire, attraverso le sue mille difficoltà piu che storiche, una necessaria strutturazione linguistica, possibilmente solida, alle espressioni che in essa si manifestano. L’attenzione riposta verso questo dettato primario sia dall’istituzione pubblica (Accademia) che dall’istituzione privata (galleria) dispone noi successivamente -la critica e la storiografia preposta- “docilmente” sul versante di una informazione che rivendica sempre più una caratteristica del tempi: peculiarità e necessità della testimonianza. II risultato più vero che si tocca, sostanziale direi, circoscrive, dimensiona realtà espressive in “formazione”. Poetiche dell’immagine che ricorrono all’utilizzo, anche in modo indiscriminato, dei molteplici sistemi linguistico/formali messi a loro disposizione dall’interezza della storia dell’arte didatticamente appresa e assorbita ed iconicamente rielaborata. In breve, a operare e strutturare una forma di denuncia che non sviluppi e concretizzi una dimensione solo “conclusiva” ma che invece pratichi quello che comunemente oggi viene inteso come “nomadismo” linguistico che è forma “espansiva” con un gradiente entropico molto elevato. Le opere di Armando Gioia sono “sintomi” visivi, poichè non potrebbero non essere tali di questa nuova dinamica che attraversa il sistema dell’arte. II suo è un procedere attraverso le diverse valutazioni di stile, dove anche la tecnica della pittura ad olio, riversata su una diversità di supporti (masonite, tela, carta), tende a modificare all’interno del genere praticato, la pittura , il suo indirizzo finale che, ad esempio, può essere il suo riscoprire le tentazioni più libere dell’illustrazione. Infatti, la tecnica a cui sottopone l’olio è discorsiva; essa è “indifferente”, se cosi possiamo dire, a dimensionare le sue caratteristiche più storiche relative a materialità e a luminosità. Questa pittura ad olio abbandona la sua identità di sostanza per risolvere la necessità del “disegnato” a quest’ultimo, infine, essere trama ad una “narrazione” mai negata o interrotta. In questi dipinti o, per una migliore definizione, “dispositivi” vi è il caparbio tentativo di non considerare le “gabbie” formali delle avanguardie e quelle successive delle neoavanguardie le quali avevano cristallizzato I’unità di senso e istituzionalizzato la vanificazione del suo fondamento ma, altresì, a considerare i loro assunti iconici come sistemi particolari di una grammatica ancora da costruire e giocare sul piano del possibile “nuovo” senso. Se in tal modo il dispositivo di scrittura e narrazione viene riattivato – significativo in questo caso menzionare un dipinto particolare dell’artista che porta un’intestazione indiretta ma esplicativa “II tempo è sulla pelle” – si ripristina e si moltiplica anche il dispositivo di lettura.
Rolando Alfonso